A distanza di alcuni giorni dal suo svolgimento si possono (e si debbono) valutare gli elementi più importanti e incisivi e anche i limiti della cinquantesima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani di Trieste. “Al cuore della democrazia” il suo ambizioso (e forse troppo ampio) tema di discussione ha sicuramente alimentato grandi attese sulle decisive motivazioni della partecipazione politica dei cattolici alla vita della Repubblica come magistralmente spiegato da Mattarella nel suo discorso introduttivo dell’evento, poi chiuso dall’intervento del Papa l’ultimo giorno.
Sullo sfondo la consapevolezza di una storia importante come ha ben riassunto Francesco. “In Italia – queste le sue parole – è maturato l’ordinamento democratico dopo la seconda guerra mondiale, grazie anche al contributo determinante dei cattolici. Si può essere fieri di questa storia, sulla quale ha inciso pure l’esperienza delle Settimane Sociali; e, senza mitizzare il passato, bisogna trarne insegnamento per assumere la responsabilità di costruire qualcosa di buono nel nostro tempo”. Un invito esplicito all’impegno dei cattolici nello spazio pubblico. All’impegno politico declinato anche come “amore politico”. “A questa carità politica – così ancora il Papa – è chiamata tutta la comunità cristiana, nella distinzione dei ministeri e dei carismi. Formiamoci a questo amore, per metterlo in circolo in un mondo che è a corto di passione civile. Dobbiamo riprendere la passione civile, questo, dei grandi politici che noi abbiamo conosciuto. Impariamo sempre più e meglio a camminare insieme come popolo di Dio, per essere lievito di partecipazione in mezzo al popolo di cui facciamo parte”. E a tale proposito è significativo un punto di coincidenza tra i discorsi di Matterella e Francesco che senza mai citarsi (e mi pare giusto sottolinearlo) hanno insistito entrambi sul dovere della partecipazione senza accontentarsi di parteggiare o fare il tifo.
Ad inviti così espliciti è seguita una immediata reazione da parte di un consistente gruppo di delegati (un’ottantina) tra amministratori locali e responsabili e militanti di associazioni e movimenti costituitisi sotto la dicitura “Rete di Trieste”. E difatti nel documento scaturito da questo confronto i sottoscrittori affermano: «Siamo pronti a fare un passo in avanti rispetto a maggio (alcuni si erano già incontrati, ndr), siamo consapevoli della responsabilità di costruire dal basso nuovi spazi di buona socialità e innovativi strumenti di democrazia che superino la stanchezza di una partecipazione che è oggi davvero ai minimi storici». C’è la consapevolezza, così si legge ancora nel documento, che questo tempo aspetta dai cattolici impegnati in politica «parole e opere di Speranza», nel solco di una tradizione da rinnovare. Queste le priorità: «giustizia sociale e innovazione del welfare, sostenibilità ambientale, centralità delle famiglie e della scuola, accoglienza e integrazione, cura e valorizzazione degli strumenti di partecipazione alla vita democratica». Il tutto ricompreso nell’affermazione di «fare del magistero sociale di papa Francesco l’elemento unificante per l’impegno dei cattolici in politica».
E qui si arriva al fondo del problema, non di oggi certamente, ma ricorrente nella vicenda centenaria dei cattolici in politica, da Sturzo in poi: la laicità come valore irrinunciabile per l’impegno politico dei credenti. Anche perché nell’entusiasmo di una ventilata ripresa di iniziativa dei cattolici, manca una parola essenziale per la politica: il partito. Cioè l’organizzazione e l’apertura alla partecipazione di ogni cittadino che condivida un programma indipendentemente dalla declamazione della propria fede religiosa che inevitabilmente dovrebbe essere registrata al massimo (ma non necessariamente) con il termine di “ispirazione cristiana”. Insomma laicità nell’autonomia del temporale e dall’altra “clericalismo” (sia pure declinato con il linguaggio moderno comunemente accettato)
L’impressione (ma si tratta di una prima impressione) è che la Settimana Sociale abbia lasciato irrisolto il tema che pure si era proposta di affrontare. Certo è importante che si sia convenuto di porsi a confronto con gli argomenti della “democrazia sostanziale” come ha ben detto all’inizio Mattarella, ma allo stesso tempo o almeno immediatamente dopo non si può non mettere a tema la questione del partito. E qui c’è un terreno enorme da esplorare e sul quale esercitare quella “creatività” invocata da Francesco. Le domande a cui rispondere sono numerose e vanno dalla valutazione se in una società decisamente post-cristiana ci sia spazio per un partito ispirato cristianamente e, quindi, se sia opportuno dichiararlo anche nel nome, oppure cercare di allargare un possibile consenso con formule meno identitarie e comunque “sostanziali”. E viceversa ragionare insieme se il ruolo dei cattolici pure richiamato dal Papa, debba (o possa) svolgersi solo nella testimonianza individuale partecipando “uti singuli” nelle diverse forze politiche, in una diaspora reale con il rischio della insignificanza. Con altre domande conclusive: può esserci una democrazia senza partiti? E perché, proprio perché ormai minoranza, non può esserci un partito di “ispirazione cristiana”?
Ma non è più tempo di discussioni accademiche, la storia a partire dalle guerre, dalle ingiustizie e dalle crisi climatiche e migratorie, non concede proroghe e si deve scegliere immaginando anche soluzioni diverse ed inclusive. Risposte che non si potevano chiedere solo a una Settimana Sociale di quattro giorni con mille delegati. Servono altre convocazioni e più partecipate nei territori.