Se Joe Biden avesse deciso già lo scorso anno di non ripresentare la propria candidatura non è affatto detto che la vicepresidente Kamala Harris avrebbe vinto le Primarie del Partito Democratico. Un partito al suo interno profondamente diviso. Sicuramente non sarebbe stata una passeggiata, appesantita da sondaggi poco lusinghieri sulla sua performance washingtoniana e facilmente aggredibile dalla sinistra del partito sulla sua non soddisfacente conduzione del dossier migratorio, uno dei pochi che Biden le ha affidato nel triennio alle nostre spalle.
E invece Harris si trova oggi con un consenso plebiscitario interno sancito dalla Convention di Chicago frutto della disperazione dem dopo il crollo di Biden palesato clamorosamente nel fallimentare confronto televisivo con Trump. Troppo grande il rischio di uno scontro nel partito così a ridosso del martedì elettorale del prossimo novembre.
La vicepresidente ha saputo cogliere al volo l’occasione e sin dal primo giorno, ricevuto l’endorsement da Biden, è entrata nella parte con grinta, capacità e determinazione. Ha subito evidenziato il divario fra lei, procuratrice generale di uno Stato e quindi dalla parte della legge, e il suo sfidante, sotto processo per diversificate accuse e con un passato imprenditoriale non sempre nitido. Per proseguire con il corteggiamento dell’elettorato femminile, sia su un tema drammatico come quello dell’aborto sia sulla comune appartenenza di genere, alla ricerca di un primato che otto anni fa proprio Trump impedì a Hillary Rodham Clinton ma che questa volta potrebbe essere raggiunto.
Con il ritiro di Biden e l’entrata in campo di Harris la partita presidenziale si è dunque riaperta, come tutti i sondaggi hanno registrato in queste settimane, e il profluvio di insulti indirizzati dal candidato repubblicano nei confronti della vicepresidente testimonia il nervosismo crescente di chi pensava di aver già vinto il match e invece ora si rende conto che al contrario esso è ancora tutto da disputare, e senza alcuna certezza di vittoria.
Accanto ai punti di forza (e bisognerà vedere se nel campo dell’economia prevarrà l’aspetto legato all’occupazione cresciuta insieme ai salari o invece quello legato all’inflazione pure essa aumentata, guastando così molti risultati conseguiti dalla bidenomics) ve ne è uno che al contrario potrebbe rivelarsi di forte debolezza. Si chiama San Francisco, California. E’ da lì che proviene Harris. E’ lì che ha fatto la procuratrice distrettuale ed è proprio a Frisco che la situazione della sicurezza pubblica è divenuta negli ultimi anni assai grave, tanto da spaventare anche i tanti turisti stranieri che ancora vogliono, giustamente, visitarla e conoscerla.
Oltre ottomila homeless, per lo più tossicodipendenti afflitti da malattie mentali, invadono le strade e creano problemi a cittadini e turisti. Sono centinaia ogni anno i decessi per overdose. La chiamano “la strage del Fentanyl”, il terribile oppiaceo sintetico prodotto in laboratori messicani sulla base di principi chimici sviluppati in Cina. Un fallimento che i repubblicani imputano con facilità alla gestione democratica della città e dello stato californiano, portatori – a loro giudizio – di una cultura lassista che motiva una legislazione che punta sulla depenalizzazione, richiamando così in città tossici da ogni dove, e al declassamento di reati minori come i furti e lo stesso possesso di droga.
Una città e uno stato liberal per definizione e per effettiva gestione che molti americani medi che non vivono sulla costa ovest semplicemente detestano. Così come detestano quell’insopportabile “politicamente corretto” che nel tempo si è allargato dall’utilizzo di termini meno espliciti per definire occupazioni lavorative alla c.d. “cancel culture” che spesso trasforma la realtà storica imponendo addirittura a docenti universitari di adattarsi ad essa, sino più in generale a quel movimento “woke” che in nome della tutela delle minoranze tende a deridere quanti hanno opinioni diverse, creando così una nuova forma di emarginazione: quella nei confronti di chi è fuori dal giro che conta dei circuiti intellettuali, dello show business, dello star system. Un ceto popolare spesso con livelli bassi di istruzione e con difficili e concreti problemi da risolvere per tirare avanti che non sopporta più quell’arrogante superiorità esibita con alterigia (o comunque percepita come tale).
Ecco il rischio per Kamala: essere associata a quel mondo, del quale in effetti è un po’ parte, senza riuscire a dimostrare quello spirito popolare che è però indispensabile per recuperare un più largo consenso e sconfiggere Trump. Ciò che riuscì a Joe Biden, anziano professionista della politica e potente esponente del Partito Democratico ma non certo membro dell’establishment liberal, lui cattolico, e non a Hillary Clinton, troppo superiore, troppo intelligente, troppo lontana. Troppo tutto. Vinse Trump, il palazzinaro miliardario. Se lo ricordi, Kamala.