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mercoledì, Febbraio 12, 2025
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Tre leadership rivali si contendono la guida del governo

I vicepresidenti del Consiglio - Salvini e Tajani - dovrebbero stare un passo indietro rispetto alla premier Giorgia Meloni, ma essendo leader di partito sono costretti alla belligeranza ininterrotta per questioni di consenso elettorale.

Non si può essere a capo del governo e al contempo essere leader di partiti. Alcide De Gasperi, di cui ricorre il settantesimo della morte, quando divenne Presidente del Consiglio nel 1945 lasciò l’incarico di segretario della Dc. Una prassi di sana cultura politica durata poi decenni. Sono ruoli che distinguono anche interessi diversi e che inevitabilmente, se intrecciati, portano a conflitti nell’esecutivo. 

Per la cultura ed esperienza politica che abbiamo accumulato dovrebbe essere ovvio, ma purtroppo nell’ignoranza istituzionale odierna è una consapevolezza che è venuta meno. E a farne le spese sono i cittadini. Il conflitto politico tra Matteo Salvini e Antonio Tajani ne è emblematico. Due vicepresidenti del Consiglio, dovrebbero stare un passo indietro rispetto alla premier Giorgia Meloni, ma essendo leader di partito sono costretti alla belligeranza per questioni di consenso elettorale. Oggettivamente Antonio Tajani ha maggiori capacità politiche e saprebbe gestire i due ruoli con più saggezza ma dividendo la poltrona di Vice con il leader della Lega, populista meno rispettoso dei criteri di ruolo e in crisi di consenso, è costretto ad alzare il livello del confronto. A farne le spese è la governabilità del paese. 

Con Salvini peraltro è un film già visto. Durante il governo giallo-verde con Conte finì in un duello rusticano che portò al suo “licenziamento” in diretta Tv e quindi alla crisi di governo. Purtroppo è il limite di un pollo che si crede un’aquila, un problema per la Lega, per la coalizione di centro destra e per il paese. Analogo discorso vale per presidenti del Senato e della Camera allorquando, dimenticano il loro ruolo super partes, entrano nelle dinamiche dello confronto politico. Stanti questi evidenti limiti di cultura istituzionale a maggior ragione è necessario evitare la cosidetta riforma del “premierato” che causerebbe slabbramenti costituzionali pericolosi portando il paese sull’orlo della democrazia illiberale. 

Se il candidato premier è leader di un partito saldamente nelle sue mani (ove sceglie i parlamentari in base alla fedeltà) e i suoi vice pure, il rischio di un cortocircuito fra interessi elettorali di partito e quelli del paese sono del tutto evidenti. Come recita l’articolo 1 della Carta, la sovranità certamente appartiene al popolo, ma il popolo la esercita nella forma e nei limiti ivi prescritti, ergo i nostri governi fino ad oggi sono sempre stati pienamente rispettosi della volontà del paese. Secondo poi la logica perseguita della riforma che vorrebbe la Presidente del Consiglio Meloni ed alleati, non dovremmo più ricorrere a governi tecnici  (cosiddetti ribaltoni), ovvero se cosi fosse già stato non avremmo potuto avere ad esempio il governo Draghi che invece si è rivelato provvidenziale in un momento di grave crisi. 

Di fronte ad un’impasse, i governi tecnici sono invece utili, anzi necessari, se affidati a persone autorevoli per capacità e prestigio. È del tutto evidente che nei momenti di scelte difficili i partiti oggi sono prigionieri del consenso e che per levare le castagne dal fuoco i cosiddetti “tecnici” sono la ciambella di salvataggio e al contempo i capri espiatori successivamente. Se poi c’è una istituzione che in questi decenni di strampalerie populiste ha tenuto in piedi la Repubblica è la Presidenza a cui tanto dobbiamo e che faremmo bene a tenerci stretta con le modalità elettive attuali. In caso di crisi il rischio è che la maggioranza uscente decida se ricorrere o meno alle elezioni in base a criteri di convenienza elettorale e di potere, mentre invece il Presidente della Repubblica, quale figura super partes, valuta e propone in base alla necessità del paese in quel determinato momento (come è avvenuto). 

L’elezione diretta del premier inevitabilmente ridurrebbe il peso istituzionale del Presidente, come è ovvio. Si possono fare altre riforme per garantire stabilità e velocità, si può introdurre la sfiducia costruttiva e ragionare sul cancellierato tedesco che è un sistema vicino alla nostra storia. Si potrebbe anche ragionare sull’opportunità di superare il bicameralismo perfetto stabilendo compiti ed iter diversi fra le due camere. Una vera riforma sarebbe quella che i partiti fossero autenticamente democratici e non in mano a poche persone, e che quindi i candidati alle elezioni fossero persone di qualità e non solo scelti e garantiti per fedeltà indefessa al capo – meglio evitare poi i gruppi familiari. La realtà delle vicende in corso evidenzia il cortocircuito che danneggia il paese, cosi quindi meglio un chiaro No a riforme farebbero implodere le istituzioni democratiche.