Passato e futuro del meridionalismo: una via autonoma per lo sviluppo.
Esiste o può essere riscoperta una identità culturale del Sud? Riportiamo il testo integrale dell’intervento dell’allora Presidente della Regione Sicilia pubblicato su “Il Popolo” del 17 gennaio 1979, un anno prima della sua barbara uccisione.
Piersanti Mattarella
Il recente articolo di Gabriele De Rosa, dedicato ai recenti volumi di Galasso su Passato e presente del meridionalismo, merita e quasi sollecita qualche considerazione di sottolineatura e di adesione alle tesi dell’autore. Che sono tesi a ben vedere tipiche del personaggio De Rosa, storico attento ai movimenti più profondi e nascosti della società meridionale, ma non per questo meno rilevanti. Mi riferisco al De Rosa storico della religiosità nel Mezzogiorno, vista però non in un’ottica papuasica, come argutamente scrive lo stesso autore parlando degli studi di Ernesto De Martino, ma invece veramente umana, attenta cioè ai valori di cui il Mezzogiorno è portatore, e che costituiscono il sostrato del suo contributo alla civiltà nazionale e che sono forse oggi il segreto della sua “tenuta“ complessiva.
Mi riferisco ovviamente ai valori umani e morali, ai valori di fondo della famiglia, oggi messi in discussione con tanta leggerezza, ai valori religiosi, di rispetto alle tradizioni, di una fede autentica, forse tipica dei semplici. Ma, per citare un esempio, tutto Manzoni non sta nei valori dei semplici? E che scandalo fece il romanzo manzoniano, il primo veramente popolare della nostra storia letteraria, fino allora tutta dedicata ad eroi di rango e di stirpe nobiliare?
Siamo dunque, ed era ovvio, ben dentro lo storicismo cattolico, dentro la cultura cattolica, di cui De Rosa è oggi uno dei maggiori rappresentanti e il suo meridionalismo non può dunque non risentire di questi valori. Si tratta cioè di vedere la storia del nostro Paese al di fuori degli schemi a volte forzati nei quali l’avevano confinata gli storici dell’area marxista almeno fino agli anni ‘60. Da qualche tempo – e gli echi sono puntualmente affioriti nel recente convegno di Palermo sulla storia dell’Italia unita nella storiografia dell’ultimo trentennio – almeno una parte degli studiosi e di quell’area si va lentamente distaccando da quegli schemi, fatti di blocchi storici, di rivoluzioni mancate, di occasioni perdute, da una visione cioè della storia dell’Unità come storia dei vinti, per guardare con più attenzione ad una concezione più articolata e aderente alla realtà del periodo postunitario. “
«In realtà – ha scritto a questo proposito Giuliano Procacci – nella storia italiana non ci furono (o non ci furono soltanto) continuità e occasioni mancate, ma un processo storico complesso e alterno, scandito per tempi e differenziato per zone geografiche, fatto di scacchi e di successi, che approdò peraltro nella formazione di uno Stato nazionale e, con un secolo circa di ritardo sui paesi più avanzati dell’Europa occidentale, nello sviluppo, sia pure intralciato e limitato da pesanti residui feudali, di un’economia capitalistica, un processo che va ricostruito nella sua concreta articolazione storica. Tale ricostruzione non può essere sostituita e non è neppure facilitata da un atteggiamento di rovello critico per le “occasioni mancate“ e di deplorazione della “continuità”».
Io credo che De Rosa si muova in questa prospettiva quando ricorda che in Sturzo e in Salvemini non mancò mai l’accenno alla società civile e a quello che essa rappresentava nel processo unitario e nelle sue distorsioni, prima fra tutte quella dello squilibrio tra le due aree del Paese. Squilibrio che, non occorre dimenticarlo, non è problema solo economico o solo politico ma anche sociale, etnico, culturale e in definitiva umano di tutta la società italiana, giacché ogni componente della realtà meridionale ha un suo omologo o corrispondente in quella settentrionale ed è con questo che deve dialogare da pari a pari, con coraggio e senza complessi, per affermare anche con i fatti il carattere ormai omogeneo dell’intero Paese e della sua cultura, ma anche per smuovere i vecchi e logori schemi irrimediabilmente datati.
Tocca dunque a noi cattolici dare un nuovo diverso contributo alla questione meridionale, magari meno tecnico, meno venato di blocchi e di sconfitte ma in definitiva più attento ai valori dell’uomo e della persona umana, così tipici del patrimonio culturale dei cattolici.
Quanto poi al contributo Svimez e alla sua origine nittiana sono pienamente d’accordo con De Rosa anche sulla base di una bella analisi di Rossi Doria ora ripubblicata nell’antologia degli scritti di saraceno curata da Barucci. Dice Rossi Doria che dal filone comune di Giustino Fortunato discendono due rami, il primo di marca salveminiana porta a Dorso e a Gramsci, il secondo, appunto nittiano e riformista, porta, attraverso Sturzo, al meridionalismo cattolico del secondo dopoguerra di cui la Svimez è stata tanta parte attraverso l’opera di Saraceno. Ed è anche qui che si va delineando il contributo peculiare, sul piano ideologico, di ciascuno al dibattito ultracentenario sul Mezzogiorno che De Rosa individua nell’industrialismo della Svimez e nella sottolineatura del problema delle città meridionali, oggi divenuto preponderante. Ma a De Rosa, sturziano per eccellenza, non sarà sfuggito certamente che se si volesse individuare un contributo autentico della Sicilia a questo dibattito esso va trovato nei valori del regionalismo e dell’autonomia che attraverso Sturzo e lo stesso Ambrosini hanno fatto imboccare allo Stato la via giusta della Regione nella Nazione.
Ma c’è un punto già sottolineato in altre occasioni e sul quale vorrei tornare ed è quello dei livelli di vita civile nel Mezzogiorno, testimoniati da una serie di parametri di per sé assai significativi, per trarne però spunto per ricordare un’altra affermazione di De Rosa che non può non trovarmi d’accordo: quella cioè di un Mezzogiorno eternamente oggetto di politiche di intervento che deve invece trovare al suo interno le forze per andare avanti; se volete anche un blocco (questo sì) di interessi che gli consenta di trovare una via autonoma allo sviluppo, una via che permetta al Mezzogiorno di riappropriarsi del proprio destino e di rimettere in moto autonomi circuiti di responsabilità; una via che restituisca fiato ai valori propri del Mezzogiorno e della Sicilia, di questa terra che “tiene“ nel terribile processo di disgregazione sociale che attanaglia il nostro Paese, dal quale queste zone sono ancora miracolosamente indenni. Ma si tratta veramente di un miracolo o è invece la risposta di quei valori sotterranei, difficilmente computabili in statistiche, ma che servono però assai bene al progresso autentico di una società?