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venerdì, Marzo 14, 2025
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Dopo il voto: perché Trump vuole la Groenlandia?

Lo scioglimento dei ghiacciai ne fa una zona di assoluto interesse strategico. Gli USA hanno nell’isola una base militare a Thule. Inammissibile il discorso di Trump sull’annessione.

L’arroganza è quella a cui ormai ci ha abituato: “In un modo o nell’altro avremo la Groenlandia”. Questa non è semplicemente una delle solite “sparate” di The Donald perché l’idea di annettersi la più grande isola del mondo, possibilmente limitandosi a comprarla (come fecero nel XIX° secolo con l’Alaska), gli Stati Uniti la coltivano da parecchio tempo. Fu infatti il Presidente Truman, nel 1946, a proporne l’acquisto (per 100 milioni di dollari, oggi ce ne vorrebbero molti, ma molti di più).

La terra degli Inuit già a quel tempo suscitava interesse in quanto a presidio del mitico Passaggio a Nord Ovest scoperto da Roald Amudsen, ma oggi lo scioglimento dei ghiacciai provocato dal cambiamento climatico ne fa una zona di assoluto interesse strategico. Un sottosuolo, inoltre, ricchissimo di risorse naturali – per quanto dai costi estrattivi assai rilevanti – fra le quali (oltre a petrolio e oro) le ormai celeberrime “terre rare” (vi sarebbero presenti 25 dei 34 materiali critici definiti “strategici” dall’Unione Europea) rende questa enorme isola di ghiaccio popolata da soli 56.000 abitanti ancor più attraente nella logica imperiale che guida il nuovo corso di Washington.

In effetti, se si guarda un mappamondo dall’alto, dal Polo Nord, se ne percepisce immediatamente la rilevanza strategica in considerazione del progressivo scioglimento dei ghiacciai (che naturalmente la logica imperniata solo sul business del presente e non sulla salvaguardia del pianeta per le generazioni future evita di considerare nei suoi potenziali – e per gli scienziati quasi certi – catastrofici effetti): nuove rotte commerciali e nuove postazioni militari consentiranno un significativo rafforzamento strategico a chi potrà installarle.

In Groenlandia si giocano dunque tre partite della massima importanza: quella dello sfruttamento del sottosuolo, quella commerciale e last but not the least quella militare. Oggi le zone economiche esclusive (ZEE) dell’Artico appartengono in prevalenza a Russia e Canada, ma se la Groenlandia divenisse americana la maggioranza di esse diverrebbe statunitense. Non è una differenza da poco, alla luce di quanto appena detto.

Il tutto viene giocato sulla testa degli orgogliosi residenti, pochi ma per nulla disposti ad essere “comprati”: “non siamo in vendita”, ha urlato il giovane premier Mùte Egade, leader del partito ambientalista Inuit Ataqatigiit, confermando inoltre il blocco – in vigore da tempo – delle licenze di esplorazione del sottosuolo in ossequio alle rigide normative ambientali stabilite dal governo di Nuuk (è questo il nome della capitale groenlandese). Questa fiera rivendicazione non gli è però bastata per evitare una dura sconfitta alle elezioni tenutesi martedì, vinte dai partiti dell’opposizione: l’indipendentista Demokraatit Party, di centrodestra, col 30% dei voti e il nazionalista Naleraq con il 24%. Mentre quelli della coalizione di governo hanno subìto un drastico ridimensionamento: al 20% il citato Inuit Ataqatigiit, ambientalista di sinistra, al 16% il socialdemocratico Siumut. Per la cronaca, Atassut, l’unica formazione che non vuole rendere il paese autonomo da Copenaghen, si è fermata al 7%.

Tutta la campagna elettorale (rigorosamente televisiva, dato che le condizioni climatiche impediscono comizi all’aperto, evidentemente) si è incentrata sulla provocazione trumpiana, e ciò ha favorito i partiti che sono parsi più risoluti nel sostenere un fiero indipendentismo. Ma con una differenza, sostanziale: i vincitori, più moderati, guardano a un percorso indipendentista graduale; i secondi arrivati invece vorrebbero accelerare il processo. Indipendenti da chi? Dalla Danimarca.

Sì, perché non bisogna trascurare il fatto che pur avendo una propria autonomia amministrativa, sancita dallo Home Rule Act del 1979 e dal Self Government Act del 2009, la Groenlandia è una provincia del Regno di Danimarca, che la conquistò nel 1721. Non è però membro dell’Unione Europea, dalla quale comunque riceve assistenza economica finalizzata al sostegno all’educazione, mentre da Copenaghen percepisce 530 milioni di euro annui: una cifra che induce ad una riflessione meno emotiva sull’ipotesi di un referendum per il distacco, oggi meno invocato di ieri dopo la velata minaccia proveniente dalla Casa Bianca.

Per il momento gli USA hanno nell’isola una base militare a Thule, che vorrebbero rafforzare consistentemente alla luce dell’accresciuta importanza strategica dell’isola dei ghiacci. Vi sono però alcuni elementi di fondo che Trump non vuole considerare ma che non sono facilmente aggirabili, a meno davvero di capovolgere il mondo, senza immaginare cosa questo potrebbe comportare, quale sarebbe il punto di caduta.

Il primo riguarda il rapporto con la UE, essendone la Danimarca paese membro. Il secondo inerisce a quello interno alla NATO, essendone parimenti la Danimarca nazione aderente. Inoltre c’è un tema molto sensibile, ovvero il rispetto del Diritto Internazionale: se dovesse prevalere l’uso della forza al fine di intaccare la sovranità territoriale di uno Stato indipendente che cosa potrebbe derivarne in termini di relazioni planetarie dopo quanto già avvenuto in Ucraina ad opera della Russia? L’idea, semplicemente, che il Diritto Internazionale non esiste più, con tutte le possibili, ulteriori, conseguenze del caso. E infine e conseguentemente, a fronte di una presa di possesso dell’isola groenlandese in una logica di “sfera di influenza territoriale” perché mai la Cina non dovrebbe annettersi Taiwan, o la Russia i paesi baltici? Trump e i suoi teorici MAGA hanno un minimo di consapevolezza di quello che potrebbe accadere se ogni minimo limite definito dal Diritto Internazionale venisse sistematicamente infranto?

Purtroppo, già il fatto che dobbiamo porci la domanda dimostra i guai nei quali l’umanità si sta infilando.