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martedì, Aprile 1, 2025
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Europa, ritorno al futuro o corsa verso il baratro?

La situazione surreale venutasi a creare in Europa dopo il ritorno di Trump esige la ripresa del vero spirito europeista. E però non basta dirsi di centro per esprimerlo.

Il processo di ridefinizione degli equilibri globali sembra esser giunto in uno stadio nel quale l’alone di ambiguità che solitamente circonda le posizioni politiche espresse da organizzazioni internazionali, stati, partiti e soggetti a vario titolo influenti, richiede di essere il più possibile ridotto o eliminato. La situazione di crisi, o di assenza, di fiducia impone a ciascuna parte di esprimere con chiarezza la propria strategia per ridurre il grado di reciproca diffidenza, che è l’ambiente ideale per la gestastazione di grandi guerre.

Ecco, allora, che vi sono delle domande che i soggetti politici, a ogni livello, e a ogni latitudine del globo, non possono lasciare senza risposta, se non vogliono esser complici di sviluppi avventurosi. Per l’Occidente tali domande sono essenzialmente quattro.

L’unilateralismo è davvero finito, quindi nulla osta più al multilateralismo? Cosa sono e cosa vogliono i Brics? Cosa vuole la Russia? Qual è la strategia dell’Unione Europea?

Al di là del cinema quotidiano inscenato dall’Amministrazione Trump, vi è in sostanza il ritorno postumo di Kissinger al potere. Negli Usa ha prevalso la fazione “realista” e indipendentista, ha perso la fazione, trasversale ai due partiti, “unipolarista” e “lealista”, lealista soprattutto alla secolare architettura finanziaria londinese. Cosicché l’Occidente appare diviso. Gli Stati Uniti accettano nei fatti il nuovo assetto globale multilaterale, che implica, tra le altre cose, la rinuncia a infliggere una sconfitta strategica alla Russia alla quale vengono anzi, aperte le porte per l’integrazione nell’Occidente, a cui peraltro la Russia appartiene per cultura, storia, geografia.

Nel contempo il Regno Unito si arrocca nella difesa strenua dell’unipolarismo e assume nei fatti, pur da Stato esterno, e per quanto  paradossale possa sembrare dopo la Brexit, la guida politica dell’Unione Europea, per tramite della Francia, potendo ancora contare, ottant’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, sulla subordinazione (senza alternative, almeno per ora) della Germania. Qui sta la genesi della situazione surreale venutasi a creare dopo il ritorno di Trump, che vede gli Stati Uniti virare verso una soluzione diplomatica per l’Ucraina e l’Ue attestata sulla continuazione della guerra. E che permette, di nuovo (!), ai poteri finanziari d’Oltremanica di puntare sul riarmo tedesco, in una duplice funzione, antirussa e nel contempo di complessivo indebolimento attraverso la distruzione bellica, dell’Europa continentale nel suo complesso, Est e Ovest.

Questa divisione all’interno dell’Occidente appare ancora più seria alla luce di ciò che effettivamente sono e vogliono i Paesi organizzati nel Coordinamento Brics. Infatti, la più importante associazione di Stati dopo il G20, non ha mai manifestato intenti sovversivi, meno che mai bellicosi, rispetto all’ordine internazionale ma ha espresso e continua a esprimere, un approccio propositivo volto alla riforma, al miglioramento e all’aggiornamento del sistema delle istituzioni globali, a iniziare da quelle finanziarie.

E a ben vedere non fa eccezione neanche la Russia, rea di una grave e palese violazione del diritto internazionale con l’invasione dell’Ucraina. Mosca sta tentando di prendersi con la forza, sbagliando, ciò che in passato è stato oggetto di destabilizzazione e di illegale cambiamento di regime da parte dell’Occidente, che ha sbagliato a sua volta. Non se ne esce se non con il ritorno alla diplomazia, in un contesto caratterizzato dalla accettazione di tutte le parti del multilateralismo.

L’Unione Europea, divenuta dopo la rielezione di Trump, a trazione anglo-francese, si sta ponendo da sola fuori dai giochi, come è emerso anche la settimana scorsa dai lavori del Raisina Dialogue 2025, la Conferenza di Monaco, dell’Asia indopacifica. La narrazione della presidente della Commissione von der Leyen stride talora con lo spirito dei padri fondatori dell’Europa. Da un’Europa da costruire per rendere impossibile la guerra anche creando una difesa comune sovrastatale, a un’Europa che si prepara, mettendola quasi in agenda, alla guerra negli anni futuri. Da un’Europa che già agli inizi degli anni cinquanta tentava di darsi una difesa comune a un’Europa che, avventatamente, permette, e incoraggia il riarmo nazionale tedesco.

Questa situazione di grande ambiguità, qui sbrigativamente ricapitolata, si ripercuote nella politica italiana. Anche a questo livello occorre un’operazione di disambiguazione politica. Soprattutto al centro. Perché la visione espressa, per esempio, da Calenda o da Più Europa (a differenza della linea molto equilibrata tenuta dal ministro degli Esteri Tajani), difficilmente appare componibile con il progetto di una Ue che si attrezza a diventare protagonista in un contesto globale caratterizzato dal multipolarismo. Il popolarismo, l’eredità della politica estera democristiana, De Gasperi, Moro e Andreotti, sono altra cosa. Ce lo ricorda, ad esempio, Lucio D’Ubaldo quando, in una recente intervista, ha parlato della necessità di un “globalismo plurale”, un concetto che appare adeguato alla gestione pacifica e inclusiva delle dinamiche del mondo attuale, ma che richiede una conversione alla visione multilaterale, dell’intero Occidente prima che, come sempre accade nella storia nelle situazioni simili a quella attuale, la brutalità dei fatti possa prendere definitivamente il sopravvento sulla ragione e sulle buone intenzioni.