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Sfiducia e speranza: l’Italia tra antiparlamentarismo e democrazia

La storia, attraverso crisi e rinascite, ci invita a riscoprire il valore della partecipazione e della rappresentanza. Nel secondo dopoguerra, i partiti non furono soltanto strumenti di potere, ma anche “scuole di democrazia”.

In Italia, la sfiducia verso le istituzioni rappresentative non è un fenomeno recente, né un’incrinatura passeggera: è una costante che affonda le sue radici nel cuore stesso del processo di costruzione nazionale. Tra storia, letteratura e società, l’antiparlamentarismo ha accompagnato l’evoluzione del Paese come un’ombra persistente, ricomparendo in nuove forme nei momenti di crisi, di trasformazione, o semplicemente di disillusione collettiva.

L’Italia unita nacque con una frattura. Mentre a livello istituzionale si celebrava il compimento del sogno risorgimentale, in ampie aree delle province meridionali il nuovo Stato veniva vissuto come una forza estranea, imposta da élite settentrionali distanti. Un fenomeno complesso come il brigantaggio, in questo scenario, fu interpretato anche come un’espressione di ribellione popolare: resistenza sociale, come suggeriva Molfese, o “rivoluzione mancata”, secondo Gramsci. È in questo contesto che si delinea una prima e profonda sfiducia nei confronti dello Stato centrale, un senso di estraneità che si sedimenterà nel tempo, alimentando una percezione delle istituzioni come entità distanti, quando non ostili.

A cavallo tra Otto e Novecento, il mondo politico italiano finisce sotto la lente acuminata della narrativa. Il cosiddetto “romanzo parlamentare” mette in scena un Parlamento lontano dall’ideale mazziniano: luogo di trasformismo, di corruzione, di ambizioni personali. “I moribondi di Palazzo Carignano” di Petruccelli Della Gattina, “La conquista di Roma” di Matilde Serao, “L’Imperio” di Federico De Roberto, solo per citare alcuni titoli, raccontano una politica opaca, autoreferenziale, incapace di rappresentare i bisogni della collettività. Tutto ciò si consuma in particolare dopo l’approvazione della nuova legge elettorale del 1882, con l’allargamento del suffragio elettorale, con tutte una serie di conseguenze che ne derivano. Questa satira letteraria, pur nell’intento artistico, assume il ruolo di una critica sociale tagliente, contribuendo a formare un immaginario diffuso in cui l’istituzione parlamentare appare inefficace, se non addirittura farsesca, dove emergono i valori del Risorgimento tradito e l’opportunismo della borghesia. “Rosso e nero a Montecitorio: il romanzo parlamentare della nuova Italia (1861-1901)” è un testo curato Carlo A. Madrignani (1980) che rivisita la produzione letteraria di questi intellettuali che, appunto, nei primi decenni dello Stato unitario avevano assunto come terreno di sperimentazione la descrizione dei costumi e delle istituzioni.

Eppure, vi fu un momento nella storia italiana in cui la politica seppe riconquistare autorevolezza. Nel secondo dopoguerra, i partiti non furono soltanto strumenti di potere, ma anche “scuole di democrazia”. La Costituente rappresentò un modello di confronto civile tra culture diverse, mentre le formazioni politiche – dalla DC al PCI – ebbero un ruolo fondamentale nella costruzione di una cittadinanza attiva. Era la politica come “pedagogia pubblica”, in cui la rappresentanza si nutriva del radicamento sociale e del coinvolgimento diffuso.

Ma la diffidenza non scomparve mai del tutto: il movimento dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini diede voce a un sentimento di estraneità nei confronti della “casta” e delle nuove istituzioni repubblicane. Un linguaggio diretto, populista, capace di parlare a un’Italia smarrita e alle prese con cambiamenti radicali. Quel malcontento, solo momentaneamente sopito, avrebbe trovato nuova linfa nei decenni successivi.

Nel XXI secolo, il populismo e il sovranismo hanno rispolverato – con strumenti nuovi – l’antica sfiducia nei confronti delle élite. Il Parlamento torna ad essere rappresentato come il teatro di un potere debole, mentre i leader populisti si pongono come interpreti diretti della volontà del “popolo puro”, contrapposto a una classe dirigente inadeguata. Il sovranismo, a sua volta, rilancia la retorica dell’autodeterminazione contro l’ingerenza delle istituzioni sovranazionali. Ma a cambiare davvero è il terreno comunicativo.

Con l’avvento dei social media, la partecipazione politica ha conosciuto una rivoluzione tanto potente quanto ambigua. Se la televisione del Novecento offriva una comunicazione relativamente centralizzata e moderata – un flusso selezionato, spesso pedagogico – la rete, oggi, ha abbattuto barriere, offrendo a tutti la possibilità di esprimersi. L’infosfera digitale ha accelerato una trasformazione del dibattito pubblico che spesso premia l’emozione sulla riflessione, la polarizzazione sul confronto. Gli algoritmi valorizzano contenuti virali, non necessariamente veritieri o equilibrati. In questo nuovo ecosistema, l’antiparlamentarismo si diffonde con facilità: una narrazione che trova terreno fertile in un pubblico disilluso, frammentato, iperconnesso ma spesso isolato.

L’Italia, nel suo percorso storico, ha conosciuto momenti di crisi ma anche fasi di rinascita democratica. L’attuale sfiducia richiede uno sforzo collettivo: recuperare la dignità del discorso pubblico, investire in educazione civica, riconnettere la politica alla realtà delle persone. Le istituzioni, per tornare a essere credibili, devono farsi prossime: capaci di ascoltare, di spiegare, di decidere. E i cittadini, a loro volta, devono riconoscersi non solo come destinatari ma anche come protagonisti del patto democratico.

In fondo, la storia italiana ci insegna che tra disincanto e ricostruzione, tra frattura e speranza, la democrazia è sempre stata – e può ancora essere – un’opera collettiva.