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domenica, 18 Maggio, 2025
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Trump in Arabia: la pace come strumento del business

Nell’intricato puzzle mediorientale le linee guida della politica estera USA a guida Trump si possono individuare non tanto ascoltando quello che il Presidente sostiene, quanto seguendo un unico filo rosso, quello del business, appunto.

Se a qualcuno non appariva ancora chiaro, ora, dopo la missione commerciale e solo conseguentemente politica effettuata da Donald Trump nella penisola arabica, è impossibile non comprendere che la parola d’ordine del tycoon, quella che muove ogni sua mossa, più o meno estemporanea, è una sola: business. E gli affari si fanno con gli accordi, gli ormai mitici deals; e per siglarli certo è meglio un contesto di pacificazione piuttosto che di guerra e dunque, se possibile, ben venga la ricerca di una qualche (non importa esattamente quale) soluzione ai conflitti in corso, anche al prezzo di eventuali clamorose ingiustizie o sopraffazioni compiute ai danni di questo o quel popolo.

Così, fedele al proprio motto, il Presidente eletto da milioni di americani poveri o appartenenti alla middle class che fa gli interessi innanzitutto suoi e poi primariamente dei milionari in dollari spacciandoli per interessi dei soli statunitensi (tutti) è andato in Arabia a fare affari con i reali sauditi prima, e con gli emiri del Golfo, incluso quello qatariota, poi. Ma il viaggio di affari ha rivelato alcune notazioni d’ordine politico di primaria rilevanza. Che pertanto non vanno sottovalutate, né considerate marginali alla luce degli obiettivi primari, quelli economici, della missione.

Nell’intricato puzzle mediorientale le linee guida della politica estera USA a guida Trump si possono individuare non tanto ascoltando quello che il Presidente sostiene, con una facilità sorprendente nel cambiare versione o idea ogni volta che lo ritenga necessario, quanto seguendo un unico filo rosso, quello del business, appunto. Ebbene, oltre agli affari in miliardi connessi ad investimenti negli States in campi tradizionali come gli armamenti e innovativi come l’IA, Trump ha ottenuto dai regnanti del Golfo un consistente incremento della produzione di greggio, con la conseguenza – già ora percepibile – di una diminuzione del prezzo della benzina alla pompa. Questione essenziale per l’americano medio, che apprezzerà il messaggio che gli verrà inviato dal Presidente: “vi avevo promesso il calo dell’inflazione e sta cominciando a succedere”. Questo sul fronte interno. Su quello esterno il calo del prezzo del petrolio peserà moltissimo sulla Russia, la cui attuale economia di guerra mostra indubbi segni di resilienza ma avvertirà e non poco il calo delle entrate che ne deriverà. E – immagina Trump – condurrà Putin, pur se in tempi più lunghi di quelli previsti, a trattare un accordo di pace con l’Ucraina, naturalmente sotto l’egida della Casa Bianca e non certo degli europei “volenterosi”.

Giova a tal proposito ricordare che lo scorso anno i prezzi elevati del greggio, decisi dall’OPEC+ (dove il + è la Russia) a guida saudita hanno consentito a Mosca di incrementare gli introiti petroliferi del 2% rispetto al 2023. Ora si prospetta, al contrario, un sensibile decremento. 

Non solo. L’intesa con Mohammed bin Salman di fatto segna un asse privilegiato che dovrebbe condurre a conseguenze geopolitiche importanti nel Medioriente, e Netanyahu dovrà farsene una ragione. Perché, al di là degli incontri festosi nello Studio Ovale di due mesi fa e delle oscene affermazioni sul futuro di Gaza, Trump non ha affatto apprezzato la rottura della tregua operata dal governo israeliano e ora sta ricordando a Tel Aviv che è lei ad avere bisogno di Washington e non viceversa. Perché gli affari, da quelle parti, si fanno con chi ha il petrolio e lo pompa (“drill, baby, drill”).

Dunque gli Accordi di Abramo restano l’obiettivo di fondo, con l’entrata in essi di Riad: ma affinché ciò accada bisognerà in un qualche modo affrontare e risolvere la questione palestinese, e Israele anche se non vuole lo deve mettere in conto.

Anche perché un futuro raccordo Israele-Arabia consentirebbe la creazione di quel vagheggiato corridoio commerciale India-Arabia-Israele-Italia/Mediterraneo-USA che potrebbe divenire alternativo alla Via della Seta cinese: un obiettivo al quale evidentemente gli Stati Uniti stanno lavorando (Vance ne ha parlato con il premier indiano Modi anche recentemente, e non è escluso che sia pure stato parte dei colloqui fra Trump e la nostra premier).

A chiudere il cerchio, l’incontro con il nuovo leader siriano al-Sharaa: inimmaginabile sino a solo pochi mesi fa, esso dimostra la determinazione di Trump nell’isolare l’Iran. E pure su questa partita Israele dovrà adattarsi a trovare una soluzione territoriale con Damasco, magari addirittura sotto l’egida, oltre che di Washington, di Ankara, divenuta la tutrice del nuovo regime siriano. Certo non proprio il massimo per Tel Aviv, ma d’altro canto alla Casa Bianca interessa non solo garantire un ruolo alla Turchia, membro importante della NATO, ma soprattutto spingere ancor più nell’angolo gli ayatollah iraniani. Ai quali, di fatto, sta recapitando un secco messaggio: “troviamo un’intesa, anche sul nucleare, perché altrimenti verrete sopraffatti. Il vostro sistema di alleanze impostato su organizzazioni terroristiche e su stati falliti è ormai saltato”. E oggettivamente su questo punto Israele non può che concordare.

Insomma: con Trump è il business che guida. La geopolitica segue, ma non scompare. Tutt’altro.