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domenica, 18 Maggio, 2025
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L’Eurovision e la canzone triste dell’Europa

In questa edizione 2025 tante voci diverse, ma senza una vera anima. Tra effetti speciali e posture forzate, si consuma il vuoto travestito da festa. Manca il coraggio di dire qualcosa di vero.

Ha vinto l’austro-flippino JJ e gli facciamo tanti complimenti. Una riflessione tutravia s’impone. L’Eurovision Song Contest ha messo in campo il meglio della musica dei rappresentanti dei paesi europei per vedere chi potrà valere. Tutto è andato in onda sulla prima rete nazionale con il sottofondo dei commenti entusiasti dei conduttori italiani. 

Se ne è ricavato piuttosto un sentimento di tristezza e di inquietudine che non è possibile tacere. Di canzoni non se ne è vista una traccia neanche all’orizzonte. Si intende per canzone qualcosa che possa rimanere alla memoria di chi la ascolta, un motivo che sia diverso per struttura, arrangiamento e ispirazione da quello che lo ha preceduto immediatamente prima. 

Ci hanno provato stentatamente la Grecia, la Svizzera, il Portogallo, la Francia, Israele el’Italia; troppo poco per risollevare le sorti delle esibizioni proposte. Tutto si è disperatamente giocato su un palco bombardato di luci e fasci luminosi che non è chiaro se siano serviti a mettere in risalto i vari protagonisti o a coprirne la modestia. 

Occorre fare i complimenti alla scenografia per essersi inventata qualcosa che sostenesse l’assenza del tutto. Raggi colorati, flash, giochi di illuminazione hanno dato il massimo delle possibilità per offrire uno spettacolo che altrimenti non meriterebbe un istante di attenzione. 

Si deve seguire la moda, assecondarla secondo i gusti correnti. Sarà per questo che i cantanti sono diventati dei ginnasti coperti ora di tatuaggi ora di abiti che richiamano look stile lattex e similari. 

Siamo al solito davanti a balletti con amplessi simulati dove la sessualità stessa li ripudierebbe per lo squallore e la ripetitività della gestualità. Il titolo di una canzone, “Io arrivo” ha messo in chiaro lo spirito dell’evento per chi non avesse ben compreso il contesto della situazione.

E’ emersa una totale mancanza di fantasia, non una nota diversa rispetto al solito, non un guizzo d’arte che abbia un minimo di sostanza. Tutto si è giocato su acconciature stravaganti e improbabili dresscode buoni a scatenare un avvilimento che sarà difficile riporre facilmente nel cassetto. 

Sarebbe da chiedere ai performers saliti sul palco se veramente hanno il coraggio di ascriversi alla categoria del canto, se sono consapevoli della loro finitezza, parlare di modestia sarebbe già troppo. 

Difficilmente potrebbero reggere a stare sul palcoscenico senza il supporto di accorgimenti teatrali che nulla hanno a che vedere con uno spartito almeno decente.

Se la politica è lo specchio della società speriamo non lo sia anche il canto. L’Europa ha mostrato tutta la sua povertà e inconsistenza, nulla da esportare e nulla da trasmettere alle prossime generazioni.  Si era in attesa dell’Eurovision con tanto di fanfare ad annunciarne da giorni l’arrivo. Nulla di più vuoto e di sprecato.

Il dramma trova tutta la sua plateale evidenza nell’esercito di giovani che hanno affollato la piazza dell’evento, entusiasti e contenti di farne parte. Non si vede un assembramento del genere per invocare la pace e la fine dei conflitti che stanno cannibalizzando un mondo forse ormai indigesto anche al Dio di ogni religione.

C’è solo una massa di giovani che esulta perché nessuno gli ha mai insegnato per cosa valga la pena scomodarsi, quand’è che veramente valga la pena battere le mani, quando può dirsi alla felicità di far parte giustificatamente della serata, quando le note hanno un ordine da apprezzare.

Nessuno che abbia il coraggio di mettere la faccia davanti al microfono con la sola propria voce e null’altro, senza scodinzolare il corpo in versi vari. Nessuno dei paesi europei che abbia l’ardire di parlare senza buttarla in caciara insieme a mille altre voci subito a precedere e seguire.

In una recentissima intervista Riccardo Muti ha ricordato che Sant’Agostino diceva come“cantare è proprio di chi ama” e quindi, potremmo aggiungere, non di chi ama il mercato e le tragiche tendenze del momento. 

Il Maestro ha anche citato il motto del Santo per cui “Bis orat qui cantat”, chi canta prega due volte. Completando il suo pensiero ha espresso la speranza di “insegnare a tutti i cori a cantare senza smorfie e languore», evidentemente anche loro contagiati dai tempi correnti.

A noi non resta quindi che pregare per una inversione di tendenza, di risparmiarci per il prossimo anno uno spettacolo del genere che è la triste conferma di una Comunità di anime vuote e non altro. L’arte di cui da sempre fu storicamente fattrice ha perso per ora la sua strada.