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domenica, 13 Luglio, 2025
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1963, primo governo Moro: l’avvio del centro-sinistra organico

L’alleanza con i socialisti fu il prodotto di un delicato equilibrio tra innovazione e conservazione. Non riuscì a compiere una svolta radicale, ma rappresentò una risposta storicamente necessaria al mutamento profondo dell’Italia.

Tra il 1963 e il 1968, la Repubblica italiana conobbe una decisiva trasformazione politica: il passaggio dal centrismo alla formula del centro-sinistra “organico”, che vide per la prima volta la partecipazione del Partito Socialista Italiano a un governo nazionale, al fianco della Democrazia Cristiana. Non si trattò di una svolta improvvisa, bensì dell’approdo di un lungo processo iniziato almeno un decennio prima, quando il fallimento della cosiddetta “legge truffa” nel 1953 rese evidente l’impossibilità per la DC di mantenere il controllo del governo con le sole forze centriste.

Parallelamente, il PSI guidato da Pietro Nenni avviava un graduale distanziamento dal PCI, in particolare dopo la crisi ungherese del 1956, che ne accelerò il riavvicinamento all’area democratica. Si apriva così la possibilità di una nuova alleanza riformista, fortemente voluta da Amintore Fanfani e sostenuta da una parte della DC rinnovatrice, ma contrastata dai settori più conservatori del partito e dall’intero fronte liberale, timoroso di un eccessivo interventismo statale.

Il 1960 segnò un punto di non ritorno: il governo Tambroni, sorretto dai voti del Movimento Sociale Italiano, provocò un’ondata di proteste popolari culminata nei moti di Genova e in altri scontri diffusi. La legittimazione della destra neofascista si rivelò inaccettabile per ampie fasce della società italiana. L’evento accelerò il cammino verso il centro-sinistra, legittimato anche da esperienze locali come le “giunte difficili” in città chiave (Milano, Genova, Firenze), dove la collaborazione tra DC e PSI produsse i primi esperimenti amministrativi condivisi.

In questo contesto si affermano figure centrali: Fanfani, innovatore cattolico e sostenitore di una DC riformista; Nenni, traghettatore del PSI fuori dall’orbita comunista; il leader repubblicano Ugo La Malfa e Aldo Moro, mediatore paziente e abile nel tessere alleanze attraverso una pratica politica prudente ma visionaria. Il primo governo Moro, nato nel dicembre 1963 con il sostegno di PSI, PSDI e PRI, fu il culmine di tale strategia.

Non mancarono ostacoli: i liberali denunciarono il rischio di derive stataliste, parte del mondo cattolico si mostrò ostile (celebri in tal senso l’articolo “Punti fermi” del cardinale Ottaviani sull’Osservatore Romano e le missive del cardinale Siri riservate a Moro); le resistenze interne alla DC di Scelba, Andreotti e Segni; i settori industriali si opposero alle politiche di programmazione e di riforma sociale. Ma la nuova presidenza americana di J.F. Kennedy e la stagione conciliare aperta da Giovanni XXIII e proseguita da Paolo VI offrivano un orizzonte più aperto, ispirato ai temi della giustizia sociale e del dialogo con il mondo moderno.

Il programma del centro-sinistra si articolò attorno a riforme strutturali: programmazione economica, edilizia pubblica, riforma scolastica e prime forme di welfare. Tuttavia, le pressioni internazionali, i timori della Guerra fredda, i fragili equilibri di politica interna e il riemergere di trame eversive interne – prime avvisaglie della futura strategia della tensione – limitarono l’efficacia riformatrice dell’esperimento.

Il centro-sinistra fu dunque il prodotto di un delicato equilibrio tra innovazione e conservazione, tra spinte modernizzatrici e logiche di stabilità. Non riuscì a compiere una svolta radicale, ma rappresentò una risposta storicamente necessaria al mutamento profondo dell’Italia: quella del miracolo economico, della mobilità sociale, dei nuovi diritti. Fu il tentativo, imperfetto ma emblematico, di conciliare democrazia rappresentativa e progresso sociale, in una stagione in cui il riformismo sembrava ancora possibile.