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venerdì, 4 Luglio, 2025
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La piazza del tempo perduto

Frammenti di memoria, amicizia e vita quotidiana nella periferia che fu il cuore dell’adolescenza di una generazione.

“La piazza è mia!”… “La piazza è mia!” gridava o bisbigliava il matto del paese nel film Nuovo Cinema Paradiso e anche noi ragazzi, senza rivendicarne la proprietà, avevamo una piazza tutta nostra dove trascorrere le sere d’estate.

Era un luogo di ritrovo spontaneo, sempre aperto ai nuovi ingressi in paese: i ragazzi venivano lì quando le loro famiglie si trasferivano ad abitare e si faceva amicizia.

Lasciavano i loro piccoli centri per venire in quei palazzoni grigi e anonimi di periferia, spinti dalle migliori opportunità di lavoro che la città sapeva offrire: si sono sistemati e integrati tutti, ma l’insieme è in genere diventato come altrove un quartiere dormitorio con poche attrazioni e senza identità.

Unagorà di periferia

Scendere in piazza faceva parte dei riti quotidiani della giornata, in genere eravamo tutti ragazzi: non perché l’ambiente fosse misogino, ma che allora le ragazze se ne stessero prevalentemente a casa era un segno dei tempi.

Solo qualche anno più tardi sarebbero venute anche loro e qualche coppia per la vita si sarebbe formata pure tra noi.

Nel suo piccolo era una vera e propria agorà, il centro di un paese che pure non aveva centro e faceva parte di una periferia come tante, ma gli ingredienti della polis c’erano tutti.

Chi ci torna adesso trova tutto come prima, quando i ragazzi della mia età ci andavano per fare quattro chiacchiere o una partita al pallone.

Forse si è perduto lo spirito di un tempo che era fatto di estro e improvvisazione, di divertimenti a buon mercato, di lunghe conversazioni sulle cose della vita, a cominciare da quelle del presente di allora – che ci sembrava sostenibile, a differenza di oggi – per proseguire con le speranze di un futuro che immaginavamo affascinante e migliore di come poi invece è stato.

Tra giochi, sogni e pentolini dacqua

Forse i nostri discorsi e i nostri sogni avrebbero ispirato qualche pagina a Pasolini, Moravia, Pavese o la trama di un film al mio Maestro Pupi Avati.

Non c’erano telefonini e computer, videogiochi o tablet, non esistevano chat e l’intelligenza ‘artificiale’: ci bastava confrontarci su quella ‘naturale’, ci si sedeva tutti lì, sui gradini dell’abitazione del curato e si parlava, anche fino a notte fonda, scrutando le stelle.

I divertimenti non mancavano e alcuni erano – commisurandoli all’epoca – spassosi e trasgressivi.

Ricordo un’anziana signora che abitava sulla piazza e quando noi continuavamo imperterriti a giocare a pallone fino a tardi, si acquattava dietro alle persiane piccole e strette delle sue finestre e poi, improvvisamente, con un gesto ampio e teatrale ci rovesciava addosso un pentolino d’acqua.

Don Gianni e la grammatica della lealtà

[…] A modo suo ci conosceva tutti e ci voleva bene.

Non abbiamo mai imbrattato i muri con gli spray, non compivamo gesti di teppismo, non aggredivamo le vecchiette per borseggiarle.

Nessuno sapeva ancora cosa fosse il bullismo, ma quello svago un po’ irriverente e infantile gli sarebbe stato distante anni luce, era tutto un altro tipo di atteggiamento.

Naturalmente non eravamo una generazione di santi e ognuno ha vissuto le sue personali eccezioni.

Di peccati ne abbiamo commessi, ma c’era forse meno malizia nell’architettarli e più ingenuità nel metterli in pratica.

Ci pensava Don Gianni a metterci bonariamente in riga: ci sapeva fare con tutti, non ho mai incontrato un sacerdote così aperto al dialogo sincero e all’amicizia spontanea verso i giovani.

Ci ha insegnato i valori veri della vita, primo fra tutti la lealtà verso gli amici, e penso di potergli esprimere – a nome di tutti – un sincero e convinto ringraziamento.

Sotto i lampioni, prima dellalba

Poche volte, da contare sulla punta delle dita, si faceva l’alba e la trasgressione consisteva nell’aspettare la prima focaccia del mattino presso uno dei tanti forni della zona, mentre i nostri genitori dormivano sonni tranquilli.

Nella piazza e nei suoi paraggi ci siamo cresciuti, la nostra adolescenza l’abbiamo vissuta lì e poi ognuno è andato per la sua strada.

Ma quei muri scrostati, quegli intonaci consumati come le ardesie dei gradini, quel selciato sono rimasti nel cuore di tutti coloro che sono passati di lì, ne sono certo.

Il tempo andato e il genius loci

Penso di poter affermare – guardandomi intorno e osservando la deriva inarrestabile di decadenza dei costumi sociali, la mancanza di progetti condivisi, il diffuso rancore collettivo e la diffidenza che oggi pervadono le relazioni umane fino a far venir meno il valore quasi ‘certificativo’ della parola data, della stretta di mano – che si tratta di tempi che non torneranno più, nello spirito, nel cuore e nelle menti: per questo diventa importante ricordare e considerare con nostalgia ma anche con un pizzico di ironia quella stagione irripetibile della nostra vita.

Ci si rende conto, guardando a ritroso, che avevano ragione i nostri vecchi quando ci insegnavano che le tradizioni, i valori vanno conservati come primo apprendimento della vita: rispettarsi, volersi bene, divertirsi in modo spensierato senza scordarsi di dare il giusto peso alle cose, a cominciare dal sapersi accontentare di ciò che avevamo, pur senza precludere l’animo ai sogni e alle speranze.

Trovo che oggi questo concetto si sia ribaltato e allora diventa più importante apparire che essere.

Questo è – in genere – il prevalente messaggio che riceviamo dai nuovi maestri di vita, primi fra tutti la televisione e i social, per non parlar del resto.

Un amico di tante fantasticherie e compagno di altrettante innocenti scorribande mi diceva spesso in quelle sere d’estate illuminate dai lampioni, ora fermi, ora ondeggianti al soffio della tramontana, in un silenzio irreale: “verrà un giorno che questi muri parleranno, qualcuno dovrà scrivere qualcosa su quello che ha visto questa piazza”.

Di gente ce n’è passata e ho anche saputo che qualcuno non c’è più.

Ma sono certo che ognuno di noi, tra quelli che sono rimasti – sparsi nei mille rivoli che per scelta, necessità o destino la vita ti para davanti e più o meno generosamente ti propone – serba un ricordo grato e indulgente verso quegli anni di amicizia e di frequentazione: non tutte le parole dette tra noi e non tutti i passi calpestati su quel selciato sono stati inutili e perduti.

La nostra era l’adolescenza di tanti ragazzi che, forse ingenuamente, credevano in un mondo migliore.

I passaggi generazionali conservano pur sempre un loro valore recondito, anche nella cronaca che poi si fa storia.

Correvano gli anni che qualcuno ha definito ‘irripetibili’: rivisitando il passato e confrontandolo con il presente molte cose sono davvero cambiate, sulla scia del progresso, e certamente non tutte in meglio.

Ma ancora oggi, qui e altrove – in piena epoca di globalizzazione e di melting pot sociale, immedesimati nella rivoluzione tecnologica che ha radicalmente modificato la nostra vita – se uno vuol cercare il genius loci, ciò che rimane del tempo andato e gli conferisce una particolare identità, lo può trovare nella piccola o grande piazza del suo paese, tra ricordi, fantasie e immaginazione.