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martedì, 22 Luglio, 2025
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La parola spezzata

Il linguaggio smarrito tra consumo, volgarità e assenza di ascolto

“In principio era il Verbo.” Con queste parole il Vangelo di Giovanni apre uno dei testi più letti, studiati e dimenticati della storia. La parola — nella sua forma più alta — è principio, legame, creazione. È su di essa che si fonda ogni civiltà: sulla capacità di nominare, raccontare, tramandare.

Ma oggi, cosa ne è della parola?

Viviamo in un tempo che consuma parole. Ne produce in quantità vertiginosa: parole dette, scritte, rilanciate, commentate, dimenticate. Ma tra le righe di questo incessante scambio, qualcosa si è incrinato. La parola — che per secoli ha legato l’uomo alla verità, alla memoria, all’altro — oggi vacilla. Si alleggerisce. Si svuota.

Non è solo questione di stile o di lessico. È qualcosa di più profondo. La parola ha perso il suo peso. È diventata strumento di reazione, di affermazione, di visibilità. Non si cerca più ciò che è vero, ma ciò che funziona. Il linguaggio si è fatto superficie. Non guida più verso l’interiorità.

In questa crisi diffusa, c’è un segno che colpisce più di altri: la trasformazione del linguaggio delle ragazze. Un linguaggio che una volta custodiva la tenerezza, la misura, la cura — anche nel conflitto. Oggi si è fatto spesso duro, impaziente, acceso. Perfino volgare. E non nel senso sporadico dell’espressione colorita, ma come scelta costante, come cifra dell’identità.

Quando a farsi volgare è il linguaggio femminile, la ferita non è solo linguistica. È culturale. È sociale. Il femminile, che ha storicamente abitato la parola come spazio di ascolto, di connessione, di protezione, si piega al registro della risposta aggressiva, del sarcasmo, dell’eccesso. E in questo passaggio si spezza qualcosa che riguarda tutti.

Perché non è solo la voce delle donne a cambiare: è il modo in cui una civiltà concepisce il parlare, il vivere insieme, il trasmettere ciò che conta.

La volgarità — soprattutto quando si fa sistematica — non è liberazione. È una forma di impoverimento. Non denuncia un’autorità ingiusta, non svela un’autenticità profonda. Al contrario, rivela una ferita muta, un vuoto che la parola non riesce più a colmare. Dove tutto può essere detto, nulla ha più valore. Dove nulla è custodito, tutto si espone. E ciò che si espone troppo, finisce per consumarsi.

Ma non è con il moralismo che si risponde a questa ferita. È con il silenzio pensoso, e con una domanda più alta: che tipo di parola vogliamo abitare? Che tipo di voce vogliamo trasmettere?

Non si tratta di tornare indietro, ma di andare più a fondo. Di ritrovare parole che siano scelte, non solo gettate. Parole che non feriscano per abitudine, che non semplifichino per comodo. Parole che facciano spazio alla realtà, e non la travolgano.

Ogni parola vera partecipa, in modo fragile, del mistero della Parola che si è fatta carne.

Non nasce solo dalla vita vissuta, ma da un ascolto che precede, da una presenza che si dona.

Una parola vera non si limita a dire: accoglie, apre, risana. È fragile, ma non vuota. È forte, ma non gridata.

Abbiamo bisogno di parole nuove. O forse no — di parole antiche, ma pronunciate di nuovo. Con rispetto. Con consapevolezza. Con una cura che sia, già di per sé, forma di amore.

Perché in ogni epoca la parola dice qualcosa anche dell’anima collettiva.

E quando la parola si spezza, è il legame tra noi che si frantuma.

Le parole vere non restano suono: si fanno carne, gesto, legame.

E in un mondo che parla troppo e ascolta poco, forse la prima forma di verità è questa: dire solo ciò che siamo disposti a incarnare.