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sabato, 2 Agosto, 2025
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Asia, un continente sotto pressione: frontiere mobili, nazionalismi rigidi.

Tra rivalità territoriali, nazionalismi e nuove incognite geopolitiche, il continente asiatico continua a essere attraversato da tensioni latenti e fragili equilibri.

Come non bastassero le guerre che ci sono già, il mondo in questi ultimi mesi ne ha rischiate altre due, una delle quali potenzialmente devastante. Il teatro è quello asiatico, ovvero il continente che per molti analisti segnerà il tempo del pianeta in questo secolo.

Taiwan e l’incognita americana

Il continente nel quale, detto ora qui solo per inciso, si trova Taiwan, con il suo carico di generale pericolo per tutti, posta la reiterata determinazione della Cina nel considerarla una propria provincia e conseguentemente nel volerne tornare in possesso entro la metà del secolo o anche prima; e posta la parallela difesa della sua autonomia sempre patrocinata dagli Stati Uniti. Anche se, occorre dire, ora con la nuova e imprevedibile Amministrazione americana tutto è possibile: pure – come qualcuno comincia a temere fra i politici formosiani – che essa divenga una merce di scambio con Pechino nella partita economica che Donald Trump sta giocando col resto del mondo.

Preah Vihear: diplomazia, dazi e confini

Cominciamo dallo scontro più recente e meno inquietante ma non per questo non importante, quello fra Thailandia e Cambogia. L’oggetto del contendere è un antico tempio hindù, chiamato Preah Vihear, dal 2008 Patrimonio UNESCO. Ritenuto un “simbolo dell’identità nazionale” dai cambogiani, la sua attribuzione a Phnom Penh da parte dei colonizzatori francesi, oltre un secolo fa, una decisione sancita nel 1962 dalla Corte Internazionale di Giustizia, non è mai stata accettata dai thailandesi, che ritengono le alture ove esso si trova appartenenti al proprio territorio. Oltre il tempio, dunque, è una questione di confini (e sono ben 817 i km che separano i due paesi).

La tensione si protrae da decenni e ha condotto ad uno scontro armato durato 5 giorni che ha rinnovato quello del 2010, con qualche decina di morti e feriti, e che si è concluso con la mediazione della Malesia (presidente di turno dell’ASEAN) grazie (anche e forse soprattutto) alla minaccia di Trump di elevare i dazi al 36% per entrambi i paesi: sia per l’alleata Thailandia, sia per la meno vicina, ma non ostile, Cambogia. Ai colloqui ha partecipato anche la Cina, che naturalmente non può permettersi di delegare una disputa asiatica alla sola gestione statunitense.

India e Pakistan: lo spettro nucleare e la guerra dell’acqua

Più grave la tensione registratasi in maggio fra India e Pakistan. Due nazioni nucleari, nemiche da sempre, ovvero sin da quando, nel 1947, la fine dell’impero britannico consentì ai musulmani dell’area di fondare il loro stato, appunto il Pakistan, a ovest dell’India. Da allora le dispute territoriali fra le due nazioni si sono susseguite con regolarità: la principale riguarda il mitico Kashmir, fonte di numerosi scontri nel tempo (i più intensi furono nel 1971, assai prossimi ad una guerra vera e propria).

Questa volta la miccia è stata accesa da uno sconfinamento in territorio indiano – nella zona turistica della Valle di Pahalgam – da parte di un gruppo terroristico pakistano, il “Fronte della Resistenza”, di formazione jihadista, con l’uccisione a sangue freddo di ben 26 persone.

Nuova Dehli accusa Islamabad senza mezzi termini di proteggere, se non addirittura di favorire, queste milizie e dunque ha approntato una reazione molto dura: non tanto per i bombardamenti aerei effettuati, che hanno prodotto un certo numero di vittime, quanto per la sospensione del Trattato del 1960 sulle acque dell’Indo, ovvero il blocco delle acque dei fiumi che vanno verso occidente, verso il Pakistan. Un atto di guerra totale perché significa privare del bene più prezioso un’intera popolazione. E infatti il premier pakistano Shebbaz Sharif ha minacciato come ritorsione l’uso della bomba atomica (ormai la Russia ha 

fatto scuola…).

Una tregua fragile su un continente inquieto

La tregua presto siglata è definita da tutti alquanto fragile. Ma per ora regge. Senza però far cessare il timore di una deflagrazione degli scontri in un conflitto vero e proprio. Il dialogo fra le parti è infatti sostanzialmente minimo, per non dire inesistente, e dunque basta un nuovo episodio violento per far precipitare la situazione. Che potrebbe a quel punto farsi molto, molto seria.

In Asia i nazionalismi sono assai forti, hanno radici antiche, religiose e non solo, e rappresentano il carburante principale cui attinge chi gestisce il potere. Molto fuoco dunque cova sotto la cenere, anche da quelle parti.