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giovedì, 9 Ottobre, 2025
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Giovani. Nelle mani dei social?

Non solo social e like: i giovani tornano in piazza e chiedono a modo loro nuove certezze. Sfidano la politica tradizionale, diffidano dei partiti e invocano normalità, giustizia e responsabilità.

Replico volentieri agli interrogativi avanzati da Nino Labate nel suo articolo Davvero siamo nelle mani della televisione e dei social? (leggi qui), su questa testata, cercando di spostare in avanti la questione di come leggere il comportamento dei giovani contemporanei.

Le nuove tecnologie e il cambio di paradigma

In proposito, occorre ammettere che le certezze scientifiche dei media studies non sono più quelle che l’autore legittimamente richiama alla mente. Non è possibile rispetto al passato arrivare a semplificazioni come quella di “una generazione completamente telecomandata”, perché la modernità e l’avvento di nuove tecnologie, come il digitale e l’IA, hanno radicalmente rivoluzionato lo stato della questione, e conseguentemente costretto gli studiosi a nuove interpretazioni.

Intanto lasciamo da parte la Tv, perché il nodo oggi è casomai il sovranismo digitale. Ma anche questa frase da sola non basta. Aiuta a capire le volumetrie più imponenti delle scelte comunicative, ma non spiega tutto: le scelte politico-elettorali dei giovani, soprattutto nelle politiche, non consentono di istituire un legame prepotente tra digitale e trasformazioni delle opinioni.

 

Dalla piazza alla coscienza civile

Prendiamo il caso del ritorno alle manifestazioni pubbliche di questi giorni. Che ci siano stati episodi inaccettabili è vero, ma non al punto di dimenticare che i giovani abbiano falsificato l’immagine di una generazione tra aperitivi e divano. I movimenti di cui stiamo parlando aggiungono al dibattito uno sdegno morale e una difesa del Diritto Internazionale che vanno seriamente messi al centro dell’attenzione. È compito di chi sa.

 

Il nodo della sfiducia e dellincertezza valoriale

A dirla tutta, il nodo principale che si intravvede da tante ricerche (ne cito una soltanto: l’indagine Giovani e politica dell’Istituto Toniolo, sintetizzata lunedì 18 giugno da Avvenire), è che ciò che si afferma soprattutto è un clima di sfiducia che si riversa anche sui partiti, una non meno evidente attenzione al clima ma, in generale, la percezione di una rilevante incertezza valoriale.

È difficile del resto meravigliarsi di questi risultati, se osserviamo le condizioni morali del Paese, l’aumento della maleducazione individuale e pubblica, spesso anche l’esempio che politica, istituzioni e adulti offrono ai giovani, in una suicidaria drammatizzazione continua nei toni e negli argomenti.

 

Limpatto del monopolio digitale

A questo punto, le responsabilità del monopolio digitale sui giovani appaiono ridimensionate ma certo non secondarie. Se si pensa all’impatto emotivo che domina gli scenari comunicativi, alla velocità e frammentazione dei tagliandi “consumati” dai device e alla sostanziale assenza di politiche formative ispirate alla media education, è difficile non trarne la conclusione che una parte della coorte giovanile resti impigliata nella palude di una comunicazione troppo spesso a basso grado di innovazione, e dunque di impatto sulla formazione dei giovani.

 

Giovani più avanti degli adulti

Resta però la prova consistente che la cultura delle nuove generazioni, non da ieri, è più avanti rispetto a quella dei loro genitori e degli adulti. Lo dimostrano la varietà e, per molti versi, l’idealità ben più radicale rispetto al dibattito dei partiti, al punto che, come ho dimostrato nella Rubrica sulla Rivista Formiche nell’aprile 2024, il Parlamento disegnato dai giovani 18–25 anni non sarebbe rivoluzionato rispetto all’attuale, ma resta il fatto che i rapporti di forza sarebbero completamente diversi.

Certo, il richiamo ad alcune teorie del passato, come l’effetto confermativo dei media, non è saltato per aria, ma vale più per gli adulti “crocifissi” ai loro consumi prevalentemente tradizionali e mainstream piuttosto che per la nuova società giovanile.

La generazione del disincanto

Riflettiamo su quante crisi stratificate i giovani contemporanei hanno dovuto assorbire ed elaborare, prendendo atto definitivamente che la nostra non sembra una società strutturata al bene comune. È la prima generazione che ha dovuto pagare il conto di tante criticità di cui loro sono gli ultimi responsabili. Si spiega dunque perché, per i giovani, i toni e i teatrini della politica non appaiano solo come linguaggio, ma costruzioni sociali troppo orientate al passato.

Rispetto agli adulti, ad esempio, i media non funzionano da élite dirigente come succede in altre fasce di età.

Stabilità, normalità e bene comune

Se mi venisse richiesta una ricetta (e dunque una semplificazione), direi che c’è bisogno di stabilità e normalità. Serve anche una tregua non rinviabile che pacifichi almeno il piano della contesa sui progetti di uomo e di società. In questo contesto si capisce che i giovani non seguano lo spartito tradizionale del dibattito politichese, ma una nuova graduatoria e gerarchia di temi.

I movimenti come laboratorio

Vale la pena lasciarli da soli in questo sforzo? Non converrebbe ricordare che i movimenti collettivi – ce lo ha insegnato anche Francesco Alberoni, nel suo testo intitolato pertinentemente Statu nascenti – non danno riscontri immediati sull’alfabeto e sui contenitori della politica attuale, ma in genere lievitano in profondità, non emergendo chiaramente al primo appuntamento elettorale (è successo anche dopo il ’68), ma addirittura al secondo.

Se non teniamo conto di questa dinamica, scegliamo di incoraggiare l’astensionismo, dimenticando che la cultura civile è il fine della Scuola e dell’Università.