È stato un incontro positivo e denso di contenuti (dei quali naturalmente la cronaca politica dei quotidiani non ha parlato, solo interessata ai movimenti interni al Pd) quello di venerdì scorso a Milano organizzato dai riformisti dem.
Legittimo domandarsi, ora, quali sviluppi concreti avrà. Già sono state annunciate altre due iniziative, al centro e al sud. Sulla continuità della battaglia politica interna al Pd si misurerà il successo o meno di questo tentativo, guardato con qualche perplessità sotto questo profilo ove si consideri l’attenzione che destarono, lo scorso gennaio, simili appuntamenti organizzati a Milano e a Roma che però presto svanirono nel dimenticatoio.
Una frattura che chiede risposte
Ora, la frattura intervenuta in Energia Popolare (l’alleanza che perse il congresso e che per due anni ha assistito, muta e immobile, al radicale cambiamento delle coordinate di base e dei pilastri fondativi del Pd imposto da Schlein) presupporrebbe l’avvio di un confronto interno al partito anche aspro sui contenuti e sulla linea politica. Posto che gli organizzatori del convegno hanno insistito sulla natura tutta interna al Pd del loro impegno per sgombrare il campo da altre suggestioni, bisogna riconoscere che su entrambi gli aspetti le posizioni esposte a Milano sono assai diverse da quelle della maggioranza congressuale.
Freddezza e diffidenze nella maggioranza
Peraltro componibili in un quadro unitario se lo spirito unitario (“testardamente”, verrebbe da dire) prevarrà anche dentro al partito e non solo all’esterno, nel Campo Largo. Ma per ottenere questo risultato necessita volontà e disponibilità, a partire da una regolare e non formale convocazione degli organi direttivi statutari, cosa non avvenuta sostanzialmente mai durante la segreteria Schlein. E infatti il punto è proprio questo. Lecito purtroppo dubitarne. E non solo perché sino ad oggi questa volontà, nei fatti, non si è mai neppure intravista.
Ma soprattutto perché le reazioni all’incontro promosso dai riformisti sono state fredde, se non glaciali.
Reazioni interne: un catalogo di chiusure
La più gentile è stata quella della segretaria: bene il confronto, ma adesso concentriamoci sulla manovra finanziaria del Governo. Della serie: ho altro da fare, ben più importante.
La più classica, e canonica (comprensibile e pure giusta, nella logica di un sano dibattito interno) è stata quella del “correntone”, suddiviso in tre correnti o forse più, che ha sostenuto la Schlein: un incontro a Montepulciano, a fine novembre. Utile pure a ricordare alla segretaria, refrattaria ad ogni possibile limitazione del suo potere politico, chi l’ha aiutata a vincere il congresso e dunque a tenerne conto.
La più acida, inevitabilmente, è stata quella del leader detronizzato di una minoranza sin qui inesistente: Bonaccini ha rivestito i panni dell’amministratore concreto, vicino alla gente e ai suoi problemi, lontano dal chiacchiericcio inconcludente dei politici di professione. Facile pronosticare a breve un passaggio in maggioranza, anche formale. Quello sostanziale data già due anni.
La più dura, e inappellabile, è quella che si può leggere sui social (divenuti il luogo sostitutivo dei dibattiti d’un tempo ormai lontano, nel quale era d’obbligo argomentare le proprie tesi) col linguaggio essenziale – e spesso volgare, comunque sempre sbrigativo, diciamo così – loro tipico: ma che se ne vadano via quanto prima!
Il tempo perduto
Ecco, il limite dell’iniziativa milanese è che è arrivata con due anni di ritardo. Difficile recuperare il tempo perduto. Perché in questi oltre due anni il Pd ha subìto una rivoluzione ideologica che ne ha mutato il DNA fondativo. E chi ha condotto questa trasformazione ne rivendica con orgoglio i risultati: ora il Pd ha una sua identità definita, di sinistra e non compromessa con alcun tipo di moderatismo; è in prima linea, sempre in piazza, nelle battaglie di sinistra per i diritti, individuali e sociali; è tornato al 22/23 % dei consensi, recuperando diversi punti percentuali rispetto agli anni precedenti.
Chi guida il partito ritiene le proposte “tardo-blairiane” dei riformisti non solo superate ma addirittura incompatibili col profilo di una sinistra attuale che, in un mondo radicalizzato, deve essere a sua volta radicale. Lo scontro è frontale, con la Destra. Non è il tempo delle mediazioni, dei compromessi. E conseguentemente le alleanze vanno fatte con chi condivide questa esigenza di radicalità. Se poi, a soli fini elettorali, serve un contributo anche dei “moderati” ben venga, sotto forma di “tenda” fuori dall’accampamento principale però. Mentre chi sta dentro a quest’ultimo non deve disturbare, oltre un certo limite consentito.
Né sulla linea politica, né sulle alleanze, né sui contenuti programmatici. E, non c’è bisogno di ricordarlo, neppure sulla composizione delle liste per il Parlamento, che dovranno definitivamente sancire il cambiamento imposto. Del resto voluto dagli elettori, con le primarie del febbraio 2023. E ora confermato dai militanti, attivi sui social e nelle piazze. E pure, è certo, dagli iscritti, essendone arrivati di nuovi (e essendosene andati altri…). I primi in quanto entusiasti della nuova leader e i secondi al contrario in quanto delusi e amareggiati.
Una salita per pochi
È dunque tutta in salita la strada dei riformisti convenuti a Milano. Che potrebbe anche imporre scelte difficili, se la coerenza del progetto esposto prevarrà. Perché il loro Pd, quello che con qualche nostalgia – lo ha ammesso Verini – viene rimpianto col suo 32% di voti e con la sua carica innovativa, non c’è più. Consegnato alla Storia, superato dalla cronaca di questi tempi nei quali è l’assertività divisiva a prevalere, non certo la tensione unitaria.
Vocazione maggioritaria, addio.

