Riportiamo per gentile concessione del giornale ufficioso della Santa Sede l’articolo apparso nell’edizione del 2 novembre sul VI volume dell’opera omnia del Card. Carlo Maria Martini.
«È estremamente essenziale alla vita che essa debba avere un “centro”. Che ogni suo avvertimento sia rivolto a questo centro e derivi da esso». Questa intuizione di Romano Guardini è la chiave del Farsi prossimo (Milano, Bompiani, 2021, pagine 260, euro 25) che ha intriso il magistero del cardinale Carlo Maria Martini, i cui testi sulla carità tornano in libreria, raccolti nel vi volume dell’Opera Omnia edita da Bompiani. «Da qui deriva – scriveva ancora il teologo tedesco – l’atteggiamento contemplativo della vita», ma in quella vitale dialettica degli opposti per cui «la vita possiede l’enigmatica potenza di stare “fuori di sé”. (…) Già il fenomeno del “centro” importa trascendenza; è infatti centro in rapporto a un cerchio, a una superficie, a un corpo. Qualcosa dunque che sia “al di fuori” del campo di vita centrato sull’hic».
Abbiamo così delineato lo sfondo su cui rileggere il primo quinquennio milanese dell’indimenticato arcivescovo: a una metropoli indaffarata indicò La dimensione contemplativa della vita (1980) come fattore costitutivo del Farsi prossimo(1985). E viceversa, dovremmo ora aggiungere, riprendendo a distanza di quarant’anni e con maggiore coscienza critica quella straordinaria stagione ecclesiale: il farsi prossimo come esposizione prima alla trascendenza.
Come giustamente sottolinea nella sua introduzione Giacomo Costa – confratello del Martini di Farsi prossimo e del Papa di Fratelli tutti – «Per una persona che nella sua vita avrà spesso meditato un passaggio chiave degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, dove si sottolinea che “l’amore si deve porre più nei fatti che nelle parole” (n. 230), l’orientamento pratico, attivo, della carità ha bisogno di essere accompagnato da un atteggiamento contemplativo e quindi dalla disponibilità a lasciarsi interpellare in maniera radicale dalla realtà. Altrimenti manca di radici e rischia di smarrirsi alla prima difficoltà, di cadere nell’autocompiacimento o di ridursi a una serie di azioni determinata una volta per tutte. È per questo che il cardinale sottolinea spesso come la carità autentica resista a lasciarsi definire, sulla scorta della sua profonda familiarità con la Scrittura, per la quale essa, in quanto divina, resta un mistero inaccessibile, “sempre un po’ al di là di ciò che possiamo capirne, perché, come scrive (solo una volta) san Giovanni: Dio è carità”».
Una medesima consapevolezza, quella resistenza a definire intrisa di senso del Mistero, spinge tanto Martini quanto Papa Francesco verso la parabola del buon samaritano, con la quale Gesù si smarcò dalla finzione legalistica – «E chi è mio prossimo?» (Luca 10, 29) – per narrare l’amore in azione.
Risulta in effetti molto feconda una lettura sinottica dei due commenti al testo lucano che avviano rispettivamente la lettera pastorale del cardinale e l’enciclica Fratelli tutti. Ne viene in primo piano, come in una storia degli effetti, la posta in gioco intravvista da Simone Weil fra le due guerre mondiali: «L’amore per il prossimo, essendo costituito di attenzione creatrice, è analogo al genio. L’attenzione creatrice consiste nel fare realmente attenzione a ciò che non esiste. Nella carne anonima che giace inerte all’orlo della strada non c’è umanità. Eppure, il samaritano che si ferma e guarda, fa attenzione a quella umanità assente, e gli atti che seguono confermano che si tratta di un’attenzione reale».
L’attenzione di Martini va esattamente a quel momento in cui il centro della persona ha un sussulto, dilata quell’istante: «Ciò che mi voglio chiedere è che cosa sia scattato in lui, che meccanismo si sia messo in moto nel suo animo, quale concreto cammino egli abbia percorso per farsi prossimo di quel disgraziato, soccorrerlo, prevederne i bisogni futuri». Come osserva padre Costa: «Proprio perché interpella l’interiorità di ciascuno, essa non è questione puramente confessionale, che riguarda solo i cristiani. Anzi può costituire un terreno di incontro dialogo al di là delle appartenenze: se la religione rischia di dividere, tutti siamo ugualmente messi in discussione dalla dignità ferita». Un approccio, questo, di estrema attualità, perché al cuore della scommessa di Francesco «sulla fraternità e sull’amicizia sociale».
Il riferimento a Simone Weil è utile a non smarrire il carattere teologico dell’espressione Chiesa in uscita incarnata dall’eretico Samaritano, con il quale Gesù stesso si identifica. Lei, non battezzata, rimasta sulla soglia della Chiesa istituzionale, consente a chi teme uno scivolamento umanitario dell’azione ecclesiale di non dimenticare: «La fede, dice san Paolo, è visione delle cose invisibili. E quel momento di attenzione è un atto di fede, così come un atto d’amore. Dio solo ha questo potere, di pensare realmente ciò che non è. Solo Dio, presente in noi, può realmente pensare la qualità umana negli sventurati, guardarli con uno sguardo veramente diverso da quello con cui si guardano gli oggetti, ascoltare veramente la loro voce come si ascolta una parola». Non ci sono alibi, dunque. Non si tratta, infatti, della sensibilità di un cardinale, di un Papa o di una filosofa, ma della natura del Vangelo, del movimento in cui la Rivelazione ci coinvolge: farsi prossimo è il supremo esporsi a Dio che si rivela, sospinti come dall’interno di noi stessi a questo salto. Grazia, dunque.
Universalmente noto per avere posto al centro dell’azione pastorale la lectio divina, l’arcivescovo Martini che emerge nell’antologia Farsi prossimo è l’uomo modificato da una città che accolse come testo da decifrare, come il più complesso, straordinario e vivo dei manoscritti avuti fra le sue mani.
È l’impatto con la realtà, con la densità del suo intreccio – avvertito dallo studioso divenuto vescovo come soverchiante – a farlo piegare in totale attenzione su ogni voce, in un esercizio continuo di incontro, comprensibile solo alla luce del suo metodo di preghiera contemplativa, a partire dalla Scrittura. Martini sostiene infatti che quanto propone ai giovani e a tutta la diocesi, di volta in volta «consiste nella lettura di una pagina biblica tesa a far sì che diventi preghiera e trasformi la vita». La contemplazione, dunque, presentata come il gradino più alto dell’esercizio di preghiera, è concepita nel suo effetto trasformativo.
L’antologia che ora ospita il lunghissimo cammino non solo del vescovo, ma della Chiesa milanese all’insegna del Farsi prossimo rivela clamorosamente come il metodo antichissimo della lectio divina non si applichi solo al testo biblico, ma costituisca la via «per andare in profondità di ogni realtà, comprese le dinamiche sociali, con il medesimo obiettivo: farne occasione di preghiera che approfondisca lo sguardo e trasformi la vita». Qui è in gioco non semplicemente una disposizione intellettuale, una preferenza per l’ermeneutica rispetto ad approcci più dogmatici e identitari. Si tratta, piuttosto, di una precisa coscienza della Rivelazione, della certezza che Dio continua a comunicarsi. Dio non si è chiuso in un libro, non si è depositato in una dottrina, non è amministrabile come un patrimonio: farsi prossimo è fargli spazio, uscire da sé è pervenire a se stessi, perdersi è ritrovarsi. Non un magistero individuale, ma un cammino di Chiesa: quello raccolto nel VI volume dell’Opera Omnia del cardinale è perciò un paradigma di sinodalità, non da ripetere, ma da studiare per avere il coraggio del discernimento. Scriveva, infatti, Guardini: «La vita non si ripete; ma si pone un inizio sempre nuovo. Non concede mai all’esperienza di dire: le cose stavano così e così, d’ora in poi saranno allo stesso modo. Perché già alla prossima volta non saranno più “così”».
È alla luce di questa consapevolezza che chi lavora a un modello alternativo alla globalizzazione dell’indifferenza e alla cultura dello scarto oggi sa «per amore della verità preferire le difficoltà».