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Il ritratto di Andreotti nelle parole di Casini 10 anni fa al Senato

 

 

Il 17 settembre del 2013 il Senato ricordò Giulio Andreotti, scomparso il 6 maggio dello stesso anno. In quella circostanza intervenne anche Pier Ferdinando Casini. Riportiamo il discorso, ancora fresco, tratto dal resoconto parlamentare.

 

Pier Ferdinando Casini

 

Signora Presidente, onorevoli colleghi, penso che sia veramente il caso di dire – mi associo alla collega De Petris – che sarà la storia a dare un giudizio compiuto di Giulio Andreotti, l’uomo che per oltre cinquant’anni ha rappresentato a tutti gli effetti l’Italia, lo Stato, le nostre istituzioni.

 

Dalla collaborazione con De Gasperi, nei primi Governi del Dopoguerra, come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, agli ultimi anni della sua vita in quest’Aula, con l’attenzione (che i colleghi della Lega – e mi ha fatto piacere – hanno ricordato) che ha mostrato sempre per tutti i colleghi, importanti o minori che fossero, per l’Aula del Senato e per le Commissioni parlamentari.

 

Andreotti per tutti questi anni ha rappresentato e forse incarnato il potere nel nostro Paese. Grande statista per alcuni, sintesi dei vizi della peggiore politica per altri, ma da tutti un riconoscimento unanime: un uomo di straordinaria umanità, di grande intelligenza, di arguzia, di autoironia, di prestigio internazionale.

 

Io voglio ricordarne solo alcuni aspetti, perché penso che un giudizio più compiuto dovrà essere evidentemente assai più meditato.

 

Voglio ricordarlo non solo come un credente di profonda fede, ma anche come un cristiano impegnato in politica, espressione non solo della classe dirigente di questo Paese, ma anche del complesso e variegato mondo della Chiesa universale che ha nella Santa Sede la sua dimensione temporale.

 

Sempre, in ogni missione, in ogni delicato compito che egli ha avuto, ha saputo tenere presenti gli interessi del nostro Paese e la dimensione della Chiesa universale, l’importanza che ha sempre colto, la grande opportunità per il nostro Paese di avere la Santa Sede in questo rapporto di specialità. Ogni atto della politica internazionale di Giulio Andreotti ha avuto come punto di riferimento dialogo, confronto, distensione internazionale, lavoro diplomatico per la libertà religiosa.

 

Negli anni della Guerra fredda – lo ricordiamo perché, come lei ha giustamente detto, signora Presidente, già fin dai primissimi momenti del Dopoguerra è stato protagonista – non si è mai stancato di dialogare. Quando era quasi impossibile, quando c’erano muri di ferro ideologici e pratici fortissimi, è stato un riferimento sempre, tra russi e americani, tra israeliani e palestinesi, e in questa veste ha utilizzato non solo gli strumenti del Governo ma anche, a più riprese, le sedi parlamentari. Come Presidente della Commissione affari esteri della Camera, come Presidente dell’Unione interparlamentare fu anticipatore coraggioso di scelte discusse.

 

Vorrei ricordare ai colleghi, a chi se l’è dimenticato, l’esordio nella diplomazia internazionale di Arafat, qui a Roma, nelle istituzioni parlamentari, alla Camera dei deputati, su invito del deputato semplice Giulio Andreotti, allora nella sua veste di presidente della Sezione italiana del- l’Interparlamentare.

 

Ricordo qualche anno fa a Ginevra, quando con un atto di squisita cortesia volle accompagnarmi nel giorno della mia elezione a Presidente dell’Unione mondiale interparlamentare: assistetti a una vera e propria processione di tutte le delegazioni nei banchi italiani; tutti avevano individuato la presenza di Andreotti e tutti, dai cubani ai venezuelani, agli israeliani, ai palestinesi, venivano per rendere omaggio a un uomo straordinariamente considerato a livello planetario. Da ciò – perché non voglio offuscare altri aspetti – si può capire quanto sconcerto nel mondo destò il processo di Palermo, le accuse di collusione con la mafia, e ancor più il processo di Perugia, in cui dovette difendersi dall’assurda accusa di essere mandante di un omicidio, successivamente caduta, come era naturale.

 

Oggi però vorrei rendere omaggio al Presidente del Consiglio che indurì il carcere per i condannati di mafia. In realtà, se vogliamo storicizzare l’evento, egli fu trascinato nella polvere quando era diventato politicamente troppo debole per difendersi.

 

Andreotti fu davvero l’emblema del potere democristiano declinante e della fine di una stagione, l’uomo che occorreva trascinare alla sbarra per far passare l’equazione giudiziaria secondo cui la storia d’Italia nel Dopoguerra era stata una storia criminale e non una battaglia, sia pure non priva di zone d’ombra, per affermare lo sviluppo economico e le regole della democrazia.

 

Mi rivolgo ai colleghi dell’altro ramo del Parlamento, che in questi giorni hanno presentato una proposta, anche miei colleghi di partito, per l’istituzione di una Commissione monocamerale d’inchiesta sul rapimento e la morte di Aldo Moro: la storia è una cosa troppo seria per fare sceneg- giate da film gialli o da fumetti. (Applausi dai Gruppi SCpI e PD e della senatrice Rizzotti). Cerchiamo di evitare di prendere il pretesto di ogni occasione per ricostruire la storia secondo suggestioni fallaci, finte, il più delle volte.

 

Ebbene, in quella drammatica stagione giudiziaria, Giulio Andreotti fece emergere la sua grande coerenza istituzionale; in nessuna fase del suo calvario venne meno la fiducia verso lo Stato, la convinzione quasi fideistica nelle regole dello Stato di diritto, il rispetto per i suoi stessi im- placabili accusatori.

 

Per cinquant’anni ha rappresentato, senza mai esserne segretario, la Democrazia Cristiana, privilegiando la guida del Governo, la gestione ministeriale all’impegno diretto nel partito, con cui peraltro ebbe un rapporto non sempre facile. Tutti sappiamo che con i «cavalli di razza», Fanfani e Moro, non sempre i rapporti di Andreotti furono semplici. Fu seguace di De Gasperi contro i «professorini» Dossetti e Fanfani.

 

Fu a lungo animatore di un centrismo minoritario nel partito, protagonista del revival centrista con il Governo del 1972 con Malagodi e i liberali, ma in un secondo tempo Andreotti, capace di grandi conversioni politiche ma in realtà guidate dalla stella polare della Democrazia Cri- stiana e dello Stato, fu gestore della solidarietà nazionale, durante i giorni della drammatica fine di Aldo Moro. E poi, a lungo capace di intessere un dialogo con il Partito comunista italiano. Fu forse il meno ideologico dei «big» democristiani. E si narra, in realtà, che in ogni partito ci fossero uomini a lui vicini e comunque non immuni dal suo fascino politico, a destra come a sinistra.

 

A lui si debbono straordinari aneddoti, e il nostro Presidente ne ha ricordati alcuni molto belli. Il più celebre: «Il potere logora chi non ce l’ha», fu per molti l’espressione più illuminante del suo tragitto politico.

 

Ma Giulio Andreotti fu anche tante altre cose: il giovane cattolico fervente; l’infaticabile gestore di un consenso elettorale che lo radicava profondamente in Roma, questa città; l’uomo capace di parlare anche con l’ultimo elettore. Fu tra i più illustri tifosi della Roma Calcio, ma anche infaticabile latinista, amante di Marco Tullio Cicerone, letterato insigne, attore nel film «Il tassinaro» di Alberto Sordi ed anche uomo instancabile nel tessere relazioni con mille personalità del pianeta, fossero protagonisti della politica, uomini della cultura o grandi santi, come madre Teresa di Calcutta.

 

Sarà la storia a dare un giudizio compiuto su Giulio Andreotti, che è stato l’Italia in questi cinquant’anni: l’Italia a cui si rimprovera, e giustamente, l’eccesso della spesa pubblica, ma anche l’Italia capace di dare grande impulso all’unità europea, firmataria dei Trattati di Maastricht; l’Italia della ricostruzione economica, della lotta al terrorismo; ma anche l’Italia meno nobile di tante contraddizioni politiche.

 

Voglio terminare ricordando – era presente allora il presidente del Senato Grasso – il giorno del commiato a Giulio Andreotti, in una chiesa piena di tanti romani. Ho visto sì personalità della politica, dello Stato, delle istituzioni, ma ho visto soprattutto il popolo romano, il popolo che lo ha amato, molto, e che era lì quasi a dimostrare l’ansia di continuare il dialogo che con questo statista ha avuto dal 1948 in poi.

 

Voglio dire a Giulio Andreotti, che, come ha ricordato la collega De Petris, ci seguirà senz’altro con molta ironia, che c’è chi, in quest’Aula, sente ancora vivo il distacco e sente la mancanza di questa grande personalità dell’Italia repubblicana. (Applausi dai Gruppi SCpI, PD, PdL e Aut (SVP, UV, PATT, UPT)-PSI-MAIE).

 

Nel decennale della scomparsa, si terrà stamane a Roma, nella Chiesa di Santa Maria in Aquino, alle ore 11.00, una Messa di suffragio per iniziativa della famiglia e degli amici.