Achille Ardigò, un maestro “messo da parte” che vedeva nella globalizzazione una sfida inedita per i cristiani del post-Concilio.

Di seguito riportiamo, con stralci vari, la parte finale della relazione che tenne Fulvio De Giorgi a un convegno, promosso nel 2018 dalla Chiesa bolognese e l’Istituto De Gasperi, per ricordare la figura del sociologo e politico della sinistra cattolico democratica. Cade quest’anno – lo ricordiamo ai nostri lettori- il centenario della nascita di Ardigò.

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Fulvio De Giorgi

[Il] riferimento al bene comune, così declinato come orientamento fondamentale, non doveva essere inteso come precettistica culturale teorica e astratta. Ardigò notava che la Chiesa doveva assumere la «missione di far superare tali dilacerazioni sociali e culturali – connesse alla globalizzazione senza freni e agli eccessi integristici e xenofobici in esasperata difesa. E però la missione non può ricondursi in prevalenza all’efficacia di una mediazione culturale perché nessuna lezione morale razionalmente proposta può avere efficacia, nelle scristianizzate moltitudini di persone, senza che prima nelle coscienze e nelle volontà più lontane siano insorte domande personali e interpersonali di senso, per merito di carismi religiosi. Non possiamo convertire la gente del post-moderno solo o tanto con precetti e sillogismi. Occorrono carismi e creatività personali e interpersonali».

[…] Intanto questa prospettiva di bene comune, applicata anche all’interno della Chiesa, suggeriva piste di autoriforma interna. Era il secondo ambito: «Il bene comune […] ha da vedere riconosciuti, anche nella vita della Chiesa, nuovi sviluppi nei rapporti tra i sessi, i popoli e le generazioni (inclusivi anche di aspetti cruciali della morale sessuale nei cui confronti la Chiesa cattolica, specie con Giovanni Paolo II, ha rivelato una rigorosa intransigenza). […] Se si vuole il bene comune […], anche la Chiesa cattolica deve riconoscere il contributo com-primario delle donne, non solo nelle opere di carità e di educazione, ma anche nella teologia e nel governo delle istituzioni ecclesiali. La Chiesa deve poter applicare, inoltre, il principio di sussidiarietà pure nel rapporto tra le Chiese locali, specie non europee, e la Santa Sede». Mi sembra un’interessante agenda di riforma della Chiesa: inascoltabile e inascoltata all’epoca in cui fu formulata, ma evidentemente vera, tanto da non poter essere rimossa ancora oggi.

Infine, il terzo ambito, il più difficile, era quello dell’evangelizzazione.

Qui la via indicata da Ardigò era «la promozione/conversione dell’intenzionalità di senso dei credenti», tenendo «conto degli atti di senso delle persone dei credenti»,nel pieno rispetto della loro libertà. La parola-chiave era interiore, spirituale e fenomenologicamente coscienziale: era “senso”.

Spiegava Ardigò: «Intendiamo per senso […] l’intervento di un atto di coscienza immediato o di pensiero riflesso con cui la persona trascende l’abitudine, e la stessa conformità a una data norma per abitudine, alla ricerca di un valore personale intrinseco al singolo atto, anche con emergenza di un nuovo significato. […] una pastorale di prima evangelizzazione deve suscitare una risposta di senso. Solo se e quando la persona, da sola o in rapporti intersoggettivi, scopre il significato intenzionale personale che dà all’atto, anche la conformità alla norma diventa responsabilità perché frutto di libera determinazione[»2.4] E aggiungeva: «L’evangelizzazione può essere tanto più efficace quanto più è autentica profezia, carisma dello Spirito […]. L’evangelizzazione oggi può, ad es., privilegiare la teologia dei novissimi (morte, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso) difficilmente richiesti per una mediazione culturale col mondo [leggi “Progetto culturale”]. Eppure le domande sui novissimi stanno al fondo della domanda di senso della vita di moltitudini di umani anche oggi».

In conclusione, sul piano dell’evangelizzazione, Ardigò non credeva nella prospettiva del “Progetto culturale”, indicando quello che potremmo chiamare un “Progetto mistico”. L’ultimo Ardigò citava spesso la mistica, in particolare quella carmelitana, da Giovanni della Croce a Teresina di Lisieux a Edith Stein. E proprio la “notte oscura” di s. Giovanni della Croce, con i suoi richiami anti-razionalistici, gli appariva come lo scacco, nella fede, di ogni approccio culturalista.

Scriveva: «Senza dubbio, la via della mistica “notte oscura” è un cammino di minoranze elette e solo per un periodo del loro arduo percorso di purificazione verso Cristo. Ma il significato di tali richiami non può non essere di riconoscere l’insopprimibile gerarchia della vita di fede (che ha da essere scienza della croce dei credenti) che alimenta la ricerca autentica di senso delle persone, dentro e fuori i percorsi cognitivi delle culture e dei precetti di moralità sociale».

 

 

Relazione pubblicata in

http://www.istitutodegasperi-emilia-romagna.it/pdf/FulvioDeGiorgi.pdf