ADDIO A ‘GINGIO’ ROGNONI, CI HA DATO UN ESEMPIO DI GRANDE FEDELTÀ ALLE ISTITUZIONI E ALLA DEMOCRAZIA.

In Lombardia, insieme ad Albertino Marcora tirava le fila della Base (sinistra Dc)). Fu più volte ministro. Aveva un portamento nobile, “da professore”. Cattolico rigoroso, ma intransigente nella difesa della laicità dello Stato, durante la sua lunga carriera parlamentare mostrò più volte quella libertà di coscienza che lo contraddistingueva.

In via Mercato a Milano c’era la sede della Base e l’ufficio politico di Giovanni ‘Albertino’ – nome di battaglia – Marcora. Il Capo ci radunava con sistematicità per affrontare insieme ai Senior i temi di politica interna ed europea. Al tavolo della presidenza con lui sedevano sempre Rognoni e Granelli: ‘Gingio’ e Luigi, quasi gemelli. Luigi Granelli, un tribuno appassionato, e Gingio, pacato giurista che “interpretava” Albertino, Luigi, Vincenzo di Lavagna, e i giovani basisti, nel loro “corpo a corpo” con la legislazione che di volta in volta coinvolgeva le scelte parlamentari del gruppo. Noi basisti non eravamo mai ribelli in Parlamento, ma da via Mercato partivano analisi e proposte che sollecitavano, anche fortemente, i gruppi della Dc alla Camera e al Senato.

Rognoni veniva  eletto nel collegio Milano-Pavia, quello in cui ero candidata anch’io: per quattro legislature siamo andati in tandem nei comizi. Gli devo un sostegno fondamentale. Nell’Oltrepò, il nostro comune collegio elettorale, frequentavamo i viticultori e partecipavamo alle Fiere in cui era obbligatorio assaggiare vini…Eravamo complementari: Gingio mi portava le preferenze pavesi mentre io, piu forte a Milano, trascinavo lui in città. Sempre eletti.

Vale ricordare, in vista di quanto diranno altri con più approfondimento, che egli ha servito il Paese con grande scrupolo personale e istituzionale. È stato ministro dell’Interno in momenti drammatici, essendo subentrato a Cossiga dopo la tragedia di Moro. Ha affrontato la durezza della lotta al terrorismo e ha lasciato un segno nella lotta alla mafia. Da ministro della Giustizia ha promosso la legge nota come “Rognoni-La Torre”, in attuazione di una fondamentale indicazione di Giovanni Falcone, quella relativa al controllo del percorso dei soldi della mafia. Ricordo, per altro, di aver seguito in Commissione giustizia il dibattito su quella legge e di essere stata nominata conseguentemente nella prima commissione antimafia presieduta dal comunista Alinovi.

Gingio andò poi alla Difesa, voluto da Andreotti dopo le dimissioni di cinque ministri della sinistra democristiana: Calogero Mannino (Agricoltura), Carlo Fracanzani (Partecipazioni statali), Riccardo Misasi (Mezzogiorno), Sergio Mattarella (Pubblica istruzione) e Mino Martinazzoli (Difesa). Era stata posta, com’è noto, la fiducia sul provvedimento che riguardava l’emittenza radiotelevisiva. Andreotti, difendendo il lavoro del “pazientissimo ministro Mammì”, rivendicava la mediazione operata dall’esecutivo: al  gruppo privato televisivo più consistente (la Fininvest di Berlusconi) erano imposti vari limiti, diversamente da quanto  previsto per la RAI, libera da vincoli e sostenuta dal canone. Ci fu rottura, anche con Gingio. Per qualche tempo s’interruppe il rapporto con gli amici della Base, ma alla lunga tanto la sintonia culturale, quanto la passione civile e politica, portarono gli amici a ritrovarsi. 

Amavo ripetergli sempre che aveva un portamento nobile, “da professore”. Cattolico rigoroso, ma intransigente nella difesa della laicità dello Stato, durante la sua lunga carriera parlamentare mostrò più volte quella libertà di coscienza che lo contraddistingueva. D’altronde la Base era una corrente sui generis, una squadra dove ciascuno giocava il un ruolo proprio. Ormai anziano, non ha mai rinunciato ad intervenire su quotidiani nazionali o a raduni locali per testimoniare con fermezza i valori per i quali aveva impegnato la vita.

Voglio ricordare, come segno riassuntivo della sua appartenenza ad una storia di fedeltà alla democrazia, la commozione che accompagnò il suo discorso di Milano per il 25 aprile del 2006: “Non dobbiamo consentire – disse in quella circostanza – che si svilisca sottilmente il ruolo della guerra partigiana attraverso l’inaccettabile parificazione del soldato di Salò con il partigiano della montagna”. E sulla Costituzione aggiunse: “Ha garantito e garantisce la democrazia italiana”. Ecco chi era Gingio, un padre della Repubblica, cui dobbiamo onore e gratitudine. Lo chiamavamo con quel nomignolo – Gingio –  che sembrava sconveniente per una persona della sua statura, ma era piuttosto la manifestazione di un grande affetto mescolato a stima.