AgenSir | Chi vincerà il 4 luglio le elezioni in Gran Bretagna?

I sondaggi  danno i conservatori del premier Rishi Sunak ai minimi storici, mentre gli elettori dovrebbero premiare il Labour dell'astro nascente Keir Starmer. L’opinione dei politologi John Curtice e Francis Davies.

Silvia Guzzetti

 

Il panorama politico britannico verrà ridisegnato, probabilmente in maniera rivoluzionaria, il prossimo 4 luglio con le elezioni generali nelle quali voteranno, dalle 7 (ora locale, le 8 in Italia) alle 22 (le 23 in Italia), circa 48,7 milioni di cittadini britannici diciottenni, dei 53 Paesi del Commonwealth, e anche irlandesi, purché residenti nel Regno Unito. Da settimane i sondaggi danno il partito laburista di Keir Starmer in ampio vantaggio, con il Labour pronto ad occupare fino a 425 seggi dei 650 che formano la Camera dei Comuni.

La crisi senza precedenti dei Tory. Il partito conservatore, quello che ha comandato più a lungo il Paese, perderebbe fino a 257 deputati, riducendosi a 108 seggi – questa una delle ultime previsioni della società “Yougov” –, un crollo senza precedenti in 150 anni di storia che i commentatori definiscono “una catastrofe”, “una crisi dalla quale potrebbe non esserci uscita”.

A guadagnare, oltre ai Liberaldemocratici e ai Verdi, sarà anche “Reform”, il partito di destra, anti immigrazione, di Nigel Farage, l’allora eurodeputato che aveva promosso con maggior forza il referendum per la Brexit. È stato proprio questo politico populista ad assestare un ennesimo colpo al calo dei conservatori. In difficoltà è anche il partito nazionalista scozzese, lo “Scottish National Party”, dopo gli scandali che hanno coinvolto la ex leader Nicola Sturgeon, un tempo popolarissima. Una buona parte dei 28 seggi che, sempre secondo i sondaggi, i nazionalisti scozzesi perderanno, verranno guadagnati dai laburisti. Per la prima volta nella storia del Regno Unito, dove si vota con un sistema first past the post (sistema uninominale secco), e dove Tories e Labour si alternano da sempre al potere, il posto all’opposizione potrebbe essere occupato dai Liberaldemocratici.

Di Brexit non si parla più. La situazione politica di oggi sembra incredibile se si ripensa alla vittoria travolgente dell’ex premier Boris Johnson che, nel 2019, riuscì ad assicurarsi una maggioranza di 80 deputati in parlamento con il mantra “Farò Brexit e torneremo un grande Paese”. Una promessa che gli consentì di conquistare voti nel cuore del potere laburista, quel cosiddetto “Red Wall”, i seggi del nord e del centro di Inghilterra, dove, da tre o quattro generazioni, si sopravvive soprattutto grazie al sussidio di disoccupazione e dove soltanto la Ue investiva fondi. Cinque anni dopo quella promessa si è dimostrata una bugia.

“Ormai da due anni i sondaggi confermano che il 58% dei cittadini britannici vuole che il Regno Unito ritorni nella Ue”,

spiega al Sir il politologo John Curtice dell’università scozzese di Strathclyde. “Chi aveva votato per andarsene si è accorto che quell’uscita non ha risolto il problema dei migranti, che si è anzi aggravato; né è migliorata la situazione economica del Regno Unito. Tuttavia, a differenza di quello che è successo nel 2019, nessun leader politico parla più di Brexit per il timore di perdere i voti di quel 42% di cittadini ancora contrari all’Unione europea. Keir Starmer, che timoroso di perdere i voti del centro ha promesso pochissimo, dovrà la sua vittoria a Boris Johnson e Liz Truss, i predecessori dell’attuale premier Rishi Sunak, che hanno distrutto la credibilità politica dei Tories. Il primo, con i festini a Downing Street, ha violato tutte le norme anti Covid. La seconda ha rovinato l’economia britannica, con una manovra fiscale che ha fatto salire, di colpo, di diverse centinaia di euro, i mutui delle classi medie e aumentato il costo della vita, già gonfiato dalla pandemia e dall’aumento dei prezzi causato dalla guerra in Ucraina”.

Il voto dei cattolici britannici. “I cattolici, fedeli a Roma, discendenti degli immigrati irlandesi, una comunità povera, in passato hanno storicamente sempre votato laburista. Poi il voto cattolico è migrato altrove, verso i Liberaldemocratici e anche i Conservatori, quando Tony Blair, nel 1997, ha dichiarato che il partito laburista non sosteneva più un’Irlanda unita”, spiega Francis Davies, politologo, docente all’università di Oxford e a quella di Birmingham. “Oggi il partito laburista è molto lontano dalle posizioni della Chiesa su questioni come aborto, suicidio assistito e anche povertà. I vescovi di Inghilterra e Galles hanno chiesto ai fedeli di votare per parlamentari disposti a rimuovere il limite che stabilisce che sussidi e sgravi fiscali importanti come il ‘child tax credit’ e l’‘universal credit’ vengano concessi soltanto a chi ha non più di due figli, ma si tratta di una scelta che nessun partito, neppure quello laburista, è disposto a fare”.

 

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