Francesco Marcelli
Quarantacinque anni fa veniva rapito Aldo Moro. Un grande statista con una visione assai lungimirante se ne andava, lasciando l’intero Paese in subbuglio. La politica italiana non sarebbe più stata la stessa.
Il Caso Moro spaccò il Paese in due, animando una “vasta discussione pubblica sul piano dei principi”, come ricorda il professor Agostino Giovagnoli (“Il caso Moro”). Da una parte i sostenitori del “partito della fermezza”, dall’altra i sostenitori del “partito della trattativa”. La celebre tragedia greca di Sofocle del 442 a.C., l’Antigone, risultava più attuale che mai. Aveva ragione Creonte a difendere le leggi e l’integrità dello Stato o Antigone a proteggere il singolo individuo? Chi è più importante e va salvaguardato per primo, lo Stato o la persona? A un dilemma di queste proporzioni Moro, già molti anni prima di essere rapito, durante la prima lezione tenuta all’Università di Bari (3 novembre ’41), aveva risposto dicendo “la persona prima di tutto”.
Aldo Moro era un “sognatore realista e lungimirante”, un uomo cioè dotato di grande praticità e professionalità, ma allo stesso tempo capace di rischiare. Un uomo con una visione di ampio respiro, le cui azioni politiche furono di certo un azzardo, mi riferisco in particolare all’alleanza con il Psi di Nenni prima e con il Pci di Berlinguer poi. Moro, come spesso accade alle persone abituate ad approcciare la complessità con una volontà costruttiva, venne di fatto attaccato da tutti o rimase sovente incompreso. Egli ci ha insegnato che a volte le persone più rivoluzionarie sono coloro che con pacatezza e in silenzio, ma anche con grande coraggio, sviluppano principi di progresso che scardinano dal di dentro un intero sistema, che per sopravvivere deve evolversi e trasformarsi. “Il domani non appartiene ai conservatori ed ai tiranni, è degli innovatori attenti, seri, senza retorica”; così diceva Moro nel 1963.
Un politico astuto, con un progetto politico azzardato ma geniale. Dietro la strategia del confronto c’è l’intelligente proposito di normalizzare il Pci rendendolo un partito di governo, così da assottigliare sempre più le differenze sostanziali tra i due partiti di massa. Era questo un modo per risolvere lo stallo politico, per evitare che la Dc potesse perdere ulteriori consensi e al tempo stesso per offrire al Pci di uscire dall’isolamento. Tuttavia le frange più intransigenti e radicali della Dc e del Pci, dell’Italia e dei Paesi Nato, considerò questo un rischio troppo elevato. Molto spesso prevale nella storia la mentalità dicotomica del noi contro loro che non ammette compromessi o rischi: Moro da questo punto di vista era anni luce avanti. Personalmente credo che con il suo esempio di vita Moro ci abbia insegnato che la politica con la P maiuscola esiste, ed essa è sempre frutto di compromesso costruttivo e non di banale opposizione ad oltranza fine a se stessa.
A 45 anni dal caso Moro la verità non è ancora venuta completamente a galla, ma questo non significa affatto che dal 1978 ad oggi non siano stati trovati indizi centrali. Infatti negli ultimi anni il lavoro della II Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro ha gettato nuova luce su vari aspetti poco o per niente approfonditi dalle indagini precedenti. Di questo e di molto altro parleranno, il 15 marzo alle ore 16:00 a Roma in via Lucullo 6 (sede nazionale Uil), Gero Grassi, Lucio D’Ubaldo, Paolo Carusi e Roberto Campo, che cercheranno di illustrare i più recenti studi sul caso Moro.
A noi piace credere che parlare di Aldo Moro sia il modo migliore, se non per avvicinarsi alla verità, almeno per ricordare; e per ricordare intendo qualcosa di attivo e non passivo. Spesso dimentichiamo che la memoria fine a se stessa non porta a molto; al contrario il ricordo del passato, funzionale all’azione nel presente e nel futuro, è utile a tutti noi. Concludo così ricollegandomi a quanto affermato da Moro sessanta anni fa (24 marzo 1963): “Noi non vogliamo essere gli uomini del passato, ma quelli dell’avvenire”.