Stefano Caprio
Sono passati ormai due anni dal 30 settembre 2022, quando al Cremlino venne solennemente annunciata la farsesca annessione delle quattro regioni occupate in Ucraina, quelle di Lugansk, Donetsk, Zaporižja e Kherson. Vladimir Putin intervenne con un ampio e confuso discorso programmatico, che altro non era che la ripetizione dei vari ritornelli propagandistici che accompagnano la “operazione militare speciale”. I “nuovi territori” della Russia non potevano del resto suscitare lo stesso entusiasmo dell’annessione della Crimea nel 2014, sia perché la penisola del mar Nero ha ben altro significato storico e simbolico, sia perché le terre del Donbass non sono mai state veramente conquistate fino in fondo, e rimangono fino ad oggi le diverse “ucraine”, vale a dire i “confini” dei due volti del mondo russo, quello orientale e quello occidentale.
Poco più di un mese dopo la proclamazione, infatti, le armate russe hanno dovuto abbandonare in fretta e furia la capitale Kherson della regione più meridionale, senza neppure fare in tempo a togliere gli striscioni con la scritta “La Russia è qui per sempre”, e nell’altra capitale Zaporižja non sono neanche riusciti ad entrare. Eppure la retorica dell’annessione rimane totale e inappellabile, nonostante i continui cambiamenti sul fronte degli scontri bellici in queste regioni. Gli abitanti dei territori occupati si dividono nel frattempo in diverse categorie: oltre ai fuggitivi relokanty, ci sono gli žduny, “quelli che aspettano” la liberazione dagli occupanti, chiamati kolonizatory in senso dispregiativo, oppure varjagi, come gli antichi scandinavi scesi a formare la Rus’ di Kiev alle origini della storia millenaria.
Questo richiamo ai variaghi (detti anche normanni o vichinghi, a seconda del contesto) è uno dei più esplicativi dell’origine delle teorie del “mondo russo”, perché mette l’ideale dell’annessione o della conquista al principio della stessa identità collettiva: il popolo russo non ha veramente un “proprio territorio”, ma si riconosce nella continua ricerca e unificazione di “territori nuovi”. I variaghi sono stranieri tanto quanto gli asiatici, i caucasici, gli europei o i turanici che in varie epoche hanno ricomposto e ampliato la “russicità”, intesa come somma e non come specificità di un ramo orientale degli slavi. Nelle narrazioni dell’antica annalistica che illustrano la “chiamata dei variaghi”, i gruppi dei russi che si affacciavano ai mari del nord nel IX secolo erano chiamati dagli scandinavi come l’insieme del Gardariki, la terra dei gard o paesi, centri abitati di una società tutta da inventare.
Lo stesso Putin aveva fatto un’affermazione che ricapitola questa storia antica e nuova, quando intervenne alcuni anni fa in un programma televisivo, dove alcuni ragazzi rispondevano con grande preparazione a domande su storia, geografia e altre materie. Alla domanda su “dove finiscono i confini della Russia”, uno di essi aveva elencato i termini estremi della mappa federale in tutte le coordinate, ma Putin lo ha interrotto, dicendo tra il serio e il faceto che “i confini della Russia non finiscono da nessuna parte”. Questo è davvero il motivo fondante della sobornost, la “comunione universale” che alimenta le tante varianti della socialità russa: andare oltre, non lasciarsi rinchiudere in nessuna dimensione, quell’attitudine che in russo si chiama bezpredelnost, la “assenza di limiti” che si può intendere come avventurismo o anche incontinenza, incapacità di rispettare qualunque regola, fossero pure gli accordi internazionali sui confini degli Stati.
Putin è soltanto l’ultimo erede dei tanti varjagi della storia russa, che hanno cercato di “portare la civiltà” nelle terre oltre confine e nel mondo intero. Oggi l’annessione si calcola non tanto in chilometri quadrati, ma in somme di “valori tradizionali” come potevano essere in passato la rivoluzione socialista o la difesa zarista delle autocrazie, la “terza internazionale” o la “terza Roma” di Ivan il terribile, fino al “sovranismo ortodosso” attuale. Non sono gli altri Stati che devono annettersi alla Russia, è la Russia che si “annette” alle terre e ai popoli in cerca della civiltà nuova e definitiva. Per questo gli striscioni della “Russia per sempre” rimangono anche nelle sconfitte e nelle ritirate, come a Kherson e in passato in tante altre situazioni; la Russia in effetti non ha mai vinto una guerra di occupazione e annessione, ma ha piuttosto dimostrato la capacità di espellere da sé stessa il nemico, dai Tartari, i Cavalieri Teutonici e gli Svedesi fino a Napoleone e Hitler, per affermarsi a Parigi e a Berlino come “nuove capitali” della Russia stessa.
L’annessione in fondo è un concetto definitorio, rispetto alla semplice “occupazione”, come quella degli ucraini nella regione di Kursk che non si ha intenzione di annettere, nonostante si potrebbero usare argomenti speculari, in quanto molti kuriane, gli abitanti della zona, parlano più volentieri la lingua ucraina rispetto a quella russa. Quando nei conflitti una nazione occupa un territorio, l’annessione è il risultato di un complesso procedimento di giustificazioni e accordi internazionali, come quando la Cina si annesse il Tibet nel 1951 grazie a un formale accordo con il governo locale, o Israele si prese Gerusalemme est con una legge nazionale. L’Ucraina ritiene oggi la Crimea e il Donbass come regioni “temporaneamente occupate”, e così rimarranno probabilmente per decenni o per secoli, mentre la Russia esalta sé stessa con le grida Krym Naš!, “la Crimea è nostra!” e anche, se pure con minore entusiasmo, Donbass Naš!.
Sia a Sebastopoli che a Donetsk l’annessione è stata consacrata con un “referendum popolare”, senza preoccuparsi di conferire ad esso neppure l’illusione della legittimità; già nel 2014, quando ancora non era in corso un aperto conflitto militare, i seggi erano presidiati dall’esercito russo. Il concetto di “sovranità” risulta molto aleatorio in questi territori, rispondendo soltanto a imposizioni di forza che producono finti consensi, il 95% in Crimea e addirittura il 99% a Lugansk e Donetsk, 93% a Zaporižja e “solo” l’87% a Kherson. Le autocrazie in generale amano i “referendum”, e non tanto per conferire una parvenza di democrazia, piuttosto per esaltare il consenso dell’intera popolazione e demoralizzare i contrari, convincendoli che non ci possono fare niente e allo stesso tempo scoraggiare le “rivolte di palazzo” di chi nelle élite di potere volesse contrapporsi al regime dominante.
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