Benedetto XV, Dante rappresenta una “validissima guida per gli uomini del nostro tempo”.

L’enciclica pubblicata da Giacomo Dalla Chiesa nel 1921.

Diletti figli, salute e Apostolica Benedizione.

Nella illustre schiera dei grandi personaggi, che con la loro fama e la loro gloria hanno onorato il cattolicesimo in tanti settori ma specialmente nelle lettere e nelle belle arti, lasciando immortali frutti del loro ingegno e rendendosi altamente benemeriti della civiltà e della Chiesa, occupa un posto assolutamente particolare Dante Alighieri, della cui morte si celebrerà tra poco il sesto centenario. Mai, forse, come oggi fu posta in tanta luce la singolare grandezza di questo uomo, mentre non solo l’Italia, giustamente orgogliosa di avergli dato i natali, ma tutte le nazioni civili, per mezzo di appositi comitati di dotti, si accingono a solennizzarne la memoria, affinché questo eccelso genio, che è vanto e decoro dell’umanità, venga onorato dal mondo intero.

Noi pertanto, in questo magnifico coro di tanti buoni, non dobbiamo assolutamente mancare, ma presiedervi piuttosto, spettando soprattutto alla Chiesa, che gli fu madre, il diritto di chiamare suo l’Alighieri.

Quindi, come al principio del Nostro Pontificato, con una lettera diretta all’Arcivescovo di Ravenna, Ci siamo fatti promotori dei restauri del tempio presso cui riposano le ceneri dell’Alighieri, così ora, quasi ad iniziare il ciclo delle feste centenarie, Ci è parso opportuno rivolgere la parola a voi tutti, diletti figli, che coltivate le lettere sotto la materna vigilanza della Chiesa, per dimostrare ancor meglio l’intima unione di Dante con questa Cattedra di Pietro, e come le lodi tributate a così eccelso nome ridondino necessariamente in non piccola parte ad onore della fede cattolica.

In primo luogo, poiché il nostro Poeta durante l’intera sua vita professò in modo esemplare la religione cattolica, si può dire consentaneo ai suoi voti che questa commemorazione solenne si faccia, come si farà, sotto gli auspici della religione; e che se essa avrà compimento in San Francesco di Ravenna, s’inizi però a Firenze, in quel suo bellissimo San Giovanni, a cui negli ultimi anni di sua vita egli, esule, con intensa nostalgia ripensava, bramando e sospirando di essere incoronato poeta sul fonte stesso dove, bambino, era stato battezzato.

Nato in un’epoca nella quale fiorivano gli studi filosofici e teologici per merito dei dottori scolastici, che raccoglievano le migliori opere degli antichi e le tramandavano ai posteri dopo averle illustrate secondo il loro metodo, Dante, in mezzo alle varie correnti del pensiero, si fece discepolo del principe della Scolastica Tommaso d’Aquino; e dalla sua mente di tempra angelica attinse quasi tutte le sue cognizioni filosofiche e teologiche, mentre non trascurava nessun ramo dell’umano sapere e beveva largamente alle fonti della Sacra Scrittura e dei Padri. Appreso così quasi tutto lo scibile, e nutrito specialmente di sapienza cristiana, quando si accinse a scrivere, dallo stesso mondo della religione egli trasse motivo per trattare in versi una materia immensa e di sommo respiro.

In questa vicenda si deve ammirare la prodigiosa vastità ed acutezza del suo ingegno, ma si deve anche riconoscere che ben poderoso slancio d’ispirazione egli trasse dalla fede divina, e che quindi poté abbellire il suo immortale poema della multiforme luce delle verità rivelate da Dio, non meno che di tutti gli splendori dell’arte.

Infatti tutta la sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di divina, pur nelle varie finzioni simboliche e nei ricordi della vita dei mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio, che governa il mondo nel tempo e nell’eternità, premia e punisce gli uomini, sia individualmente, sia nelle comunità, secondo le loro responsabilità. Quindi in questo poema, conformemente alla rivelazione divina, risplendono la maestà di Dio Uno e Trino, la Redenzione del genere umano operata dal Verbo di Dio fatto uomo, la somma benignità e liberalità di Maria Vergine Madre, Regina del Cielo, e la superna gloria dei santi, degli angeli e degli uomini. Ad esso si contrappone la dimora delle anime che, una volta consumato il periodo di espiazione previsto per i peccatori, vedono aprirsi il cielo davanti a loro. Ed emerge che una sapientissima mente governa in tutto il poema l’esposizione di questi e di altri dogmi cattolici.

Se il progresso delle scienze astronomiche dimostrò poi che non aveva fondamento quella concezione del mondo, e che non esistono le sfere supposte dagli antichi, trovando che la natura, il numero e il corso degli astri e dei pianeti sono assolutamente diversi da quanto quelli ne pensavano, non venne meno però il principio fondamentale, che l’universo, qualunque sia l’ordine che lo sostiene nelle sue parti, è opera del cenno creatore e conservatore di Dio onnipotente, il quale tutto muove, e la cui gloria risplende in una parte più, e meno altrove; questa terra che noi abitiamo, quantunque non sia il centro dell’universo, come un tempo si credeva, tuttavia è sempre stata la sede della felicità dei nostri progenitori, e testimone in seguito della loro miserrima caduta, che segnò per essi la perdita di quella felice condizione che fu poi restituita dal sangue di Gesù Cristo, eterna salvezza degli uomini. Perciò Dante, che aveva costruito nel proprio pensiero la triplice condizione delle anime, immaginando prima del giudizio finale sia la dannazione dei reprobi, sia l’espiazione delle anime pie, sia la felicità dei beati, deve essere stato ispirato dalla luce della fede.

In verità Noi riteniamo che gl’insegnamenti lasciatici da Dante in tutte le sue opere, ma specialmente nel suo triplice carme, possano servire quale validissima guida per gli uomini del nostro tempo. Innanzi tutto i cristiani debbono somma riverenza alla Sacra Scrittura e accettare con assoluta docilità quanto essa contiene. In ciò l’Alighieri è esplicito: « Sebbene gli scrivani della divina parola siano molti, tuttavia il solo che detta è Dio, il quale si è degnato di esprimerci il suo messaggio di bontà attraverso le penne di molti ». Espressione splendida e assolutamente vera! E così pure la seguente: « Il Vecchio e il Nuovo Testamento, emessi per l’eternità, come dice il Profeta » contengono « insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana », impartiti « dallo Spirito Santo, il quale attraverso i Profeti, gli Scrittori di cose sacre, nonché attraverso Gesù Cristo, coeterno Figlio di Dio, e i suoi discepoli rivelò la verità soprannaturale e a noi necessaria ». Pertanto Dante dice giustamente che da quell’eternità che verrà dopo il corso della vita mortale « noi traiamo la certezza che viene dall’infallibile dottrina di Cristo, la quale è Via, Verità e Luce: Via, perché attraverso essa giungiamo senza ostacoli alla beatitudine eterna; Verità, perché essa è priva di qualsiasi errore; Luce, perché ci illumina nelle tenebre terrene dell’ignoranza » . Egli onora di non minore rispetto « quei venerandi Concìli principali, ai quali tutti i fedeli credono senza alcun dubbio che Cristo abbia partecipato ». Oltre a questi, Dante tiene in grande stima « le scritture dei dottori, di Agostino e di altri ». In proposito, egli dice: « Chi dubita che essi siano stati aiutati dallo Spirito Santo, o non ha assolutamente visto i loro frutti o, se li ha visti, non li ha mai gustati ».

Per la verità, l’Alighieri ha una straordinaria deferenza per l’autorità della Chiesa Cattolica e per il potere del Romano Pontefice, tanto che a suo parere sono valide tutte le leggi e tutte le istituzioni della Chicaa che dallo stesso sono state disposte. Da qui quell’energica ammonizione ai cristiani: dal momento che essi hanno i due Testamenti, e contemporaneamente il Pastore della Chiesa dal quale sono guidati, si ritengano soddisfatti di questi mezzi di salvezza. Perciò, afflitto dai mali della Chiesa come fossero suoi, mentre deplora e stigmatizza ogni ribellione dei cristiani al Sommo Pontefice dopo il trasferimento dell’Apostolica Sede da Roma [ad Avignone], così scrive ai Cardinali Italiani: « Noi, dunque, che confessiamo il medesimo Padre e Figliuolo: il medesimo Dio e uomo, e la medesima Madre e Vergine; noi, per i quali e per la salvezza dei quali fu detto a colui che era stato interrogato tre volte a proposito della carità: “ Pasci, o Pietro, il sacrosanto ovile ”; noi che di Roma (cui, dopo le pompe di tanti trionfi, Cristo con le parole e con le opere confermò l’imperio sul mondo, e che Pietro ancora e Paolo, l’Apostolo delle genti, consacrarono quale Sede Apostolica col proprio sangue), siamo costretti con Geremia, facendo lamenti non per i futuri ma per i presenti, a piangere dolorosamente, di essa, quale vedova e derelitta; noi siamo affranti nel vedere lei così ridotta, non meno che il vedere la piaga deplorevole delle eresie ».

Dunque egli definisce la Chiesa Romana quale « Madre piissima » o « Sposa del Crocifisso », e Pietro quale giudice infallibile della verità rivelata da Dio, cui è dovuta da tutti assoluta sottomissione in materia di fede e di comportamento ai fini della salvezza eterna. Pertanto, quantunque ritenga che la dignità dell’Imperatore venga direttamente da Dio, tuttavia egli dichiara che « questa verità non va intesa così strettamente che il Principe Romano non si sottometta in qualche caso al Pontefice Romano, in quanto la felicità terrena e in un certo modo subordinata alla felicità eterna ». Principio davvero ottimo è sapiente, che se fosse fedelmente osservato anche oggi recherebbe certamente copiosi frutti di prosperità agli Stati.

Ma, si dirà, egli inveì con oltraggiosa acrimonia contro i Sommi Pontefici del suo tempo. È vero; ma contro quelli che dissentivano da lui nella politica e che egli credeva stessero dalla parte di coloro che lo avevano cacciato dalla patria. Tuttavia si deve pur compatire un uomo, tanto sbattuto dalla fortuna, se con animo esulcerato irruppe talvolta in invettive che passavano il segno, tanto più che ad esasperarlo nella sua ira non furono certo estranee le false notizie propalate, come suole accadere, da avversari politici sempre propensi ad interpretare tutto malignamente. Del resto, poiché la debolezza è propria degli uomini, e « nemmeno le anime pie possono evitare di essere insudiciate dalla polvere del mondo », chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero, per cui un animo così devoto alla Chiesa, come quello di Dante, ne doveva essere assai disgustato, quando sappiamo che anche uomini insigni per santità allora le riprovarono severamente?

Tuttavia, per quanto si scagliasse nelle sue invettive veementi, a ragione o a torto, contro persone ecclesiastiche, però non venne mai meno in lui il rispetto dovuto alla Chiesa e la riverenza alle Somme Chiavi; per cui nella sua opera politica intese difendere la propria opinione « con quell’ossequio che deve usare un figlio pio verso il proprio padre, pio verso la madre, pio verso Cristo, pio verso la Chiesa, pio verso il Pastore, pio verso tutti coloro che professano la religione Cristiana, per la tutela della verità ».

Pertanto, avendo egli basato su questi saldi principi religiosi tutta la struttura del suo poema, non stupisce se in esso si riscontra un vero tesoro di dottrina cattolica; cioè non solo il succo della filosofia e della teologia cristiana, ma anche il compendio delle leggi divine che devono presiedere all’ordinamento ed all’amministrazione degli Stati; infatti l’Alighieri non era uomo che per ingrandire la patria o compiacere ai prìncipi potesse sostenere che lo Stato può misconoscere la giustizia e i diritti di Dio, perché egli sapeva perfettamente che il mantenimento di questi diritti è il principale fondamento delle nazioni.

Indicibile, dunque, è il godimento che procura l’opera del Poeta; ma non minore è il profitto che lo studioso ne ricava, perfezionando il suo gusto artistico ed accendendosi di zelo per la virtù, a condizione però che egli sia spoglio di pregiudizi, ed aperto alla verità. Anzi, mentre non è scarso il numero dei grandi poeti cattolici che uniscono l’utile al dilettevole, in Dante è singolare il fatto che, affascinando il lettore con la varietà delle immagini, con la vivezza dei colori, con la grandiosità delle espressioni e dei pensieri, lo trascina all’amore della cristiana sapienza; né alcuno ignora che egli apertamente dichiara di aver composto il suo poema per apprestare a tutti vitale nutrimento. Infatti sappiamo che alcuni, anche recentemente, lontani sì, ma non avversi a Cristo, studiando con amore la Divina Commedia, per divina grazia, prima cominciarono ad ammirare la verità della fede cattolica e poi finirono col gettarsi entusiasti tra le braccia della Chiesa.

Quanto abbiamo esposto fino ad ora è sufficiente per dimostrare quanto sia opportuno che, in occasione di questo centenario che interessa tutto il mondo cattolico, ciascuno alimenti il suo zelo per conservare quella fede che sì luminosamente si rivelò, se in altri mai, nell’Alighieri, quale fautrice della cultura e dell’arte. Infatti, in lui non va soltanto ammirata l’altezza somma dell’ingegno, ma anche la vastità dell’argomento che la religione divina offerse al suo canto. Se la natura gli aveva fornito un ingegno tanto acuto, affinato nel lungo studio dei capolavori degli antichi classici, maggiore acutezza egli trasse, come abbiamo detto, dagli scritti dei Dottori e dei Padri della Chiesa, che consentirono al suo pensiero di elevarsi e di spaziare in orizzonti ben più vasti di quelli racchiusi nei limiti ristretti della natura. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra; e certamente è assai più moderno di certi vati recenti, esumatori di quell’antichità che fu spazzata via da Cristo, trionfante sulla Croce. Spira nell’Alighieri la stessa pietà che è in noi; la sua fede ha gli stessi sentimenti, e degli stessi veli si riveste « la verità a noi venuta dal cielo e che tanto ci sublima ». Questo è il suo elogio principale: di essere un poeta cristiano e di aver cantato con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore, comprendendoli mirabilmente e dei quali egli stesso viveva. Conseguentemente, coloro che osano negare a Dante tale merito e riducono tutta la sostanza religiosa della Divina Commedia ad una vaga ideologia che non ha base di verità, misconoscono certo nel Poeta ciò che è caratteristico e fondamento di tutti gli altri suoi pregi.

Dunque, se Dante deve alla fede cattolica tanta parte della sua fama e della sua grandezza, valga solo questo esempio, per tacere gli altri, a dimostrare quanto sia falso che l’ossequio della mente e del cuore a Dio tarpi le ali dell’ingegno, mentre lo sprona e lo innalza; e quanto male rechino al progresso della cultura e della civiltà coloro che vogliono bandita dall’istruzione ogni idea di religione. È, infatti, assai deplorevole il sistema ufficiale odierno di educare la gioventù studiosa come se Dio non esistesse e senza la minima allusione al soprannaturale. Poiché sebbene in qualche luogo il « poema sacro » non sia tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri che devono essere più studiati, esso però non suole per lo più recare ai giovani quel vitale nutrimento che è destinato a produrre, in quanto essi, per l’indirizzo difettoso degli studi, non sono disposti verso la verità della fede come sarebbe necessario.

Volesse il cielo che queste celebrazioni centenarie facessero in modo che ovunque si impartisse l’insegnamento letterario, che Dante fosse tenuto nel dovuto onore e che egli stesso pertanto fosse per gli studenti un maestro di dottrina cristiana, dato che egli, componendo il suo poema, non ebbe altro scopo che « sollevare i mortali dallo stato di miseria », cioè del peccato, e « di condurli allo stato di beatitudine », cioè della grazia divina.

E voi, diletti figli, che avete la fortuna di coltivare lo studio delle lettere e delle belle arti sotto il magistero della Chiesa, amate e abbiate caro, come fate, questo Poeta, che Noi non esitiamo a definire il cantore e l’araldo più eloquente del pensiero cristiano. Quanto più vi dedicherete a lui con amore, tanto più la luce della verità illuminerà le vostre anime, e più saldamente resterete fedeli e devoti alla santa Fede.

Quale auspicio dei celesti favori ed a testimonianza della Nostra paterna benevolenza, impartiamo con affetto a voi tutti, diletti figli, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 aprile 1921, nell’anno settimo del Nostro Pontificato. 

BENEDICTUS PP. XV