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sabato, Marzo 1, 2025
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L’unità rafforzata è la sola carta a disposizione di Bruxelles.

Mezzo miliardo di europei ancora ricchi e potenti non possono immaginare di rimanere tali se non uniti, abbandonando la divisione in piccole nazioni in un pianeta ormai popolato da otto miliardi di esseri umani.

Come disse Jean Monnet “l’Europa sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per queste crisi”. Ebbene, ora siamo nel pieno di almeno due crisi: dapprima la guerra sferrata all’Ucraina dalla Russia, ora il radicale mutamento politico avvenuto a Washington. Eventi che impongono agli europei, tutti, una presa d’atto che va al di là delle loro differenti valutazioni circa l’opportunità di una “Unione sempre più stretta”.

Esiste un oggettivo pericolo che proviene da est, perché la Russia di Putin intende in un qualche modo riaffermare la propria preminenza nell’oriente continentale ricostruendo il Russkiy Mir,  il “Mondo Russo” e la sua influenza sui territori ad esso limitrofi; e perché gli Stati Uniti – almeno con questa presidenza, nel futuro chissà – non ritengono più necessario concentrare eccessive risorse e sforzi nella difesa atlantica e in ogni caso vogliono dialogare ed eventualmente cooperare con i singoli stati europei e non con una loro unione alla quale non credono e che comunque non amano.

Sta dunque a noi europei decidere il da farsi. Sapendo quanto sia comprensibile lo scetticismo di quanti, in tutti i Paesi nessuno escluso, reputano illusorio il sogno federalista alla luce non solo di duemila anni di storia che hanno plasmato un continente diviso e permanentemente in guerra sino al 1945 ma anche dalle ultime sette decadi, nelle quali certo l’Unione ha compiuto sensibili passi in avanti in molti settori a cominciare da quello commerciale ma non ha fatto quelli decisivi in termini politici, ben simboleggiati dalle politiche estere e di difesa, che non per caso, naturalmente, rappresentano la cartina di tornasole – oggi più che mai – della effettiva volontà unitaria (o della sua eventuale confermata irrealizzabilità).

Ma non si tratta solo di queste ultime. Poiché il dibattito, come è giusto che sia, si avvierà eminentemente su di esse non è sbagliato ricordare sin da ora altri settori di intervento nei quali l’Europa deve meglio predisporre le condizioni per una Unione effettiva. Ciò nella consapevolezza che nei prossimi mesi si dovrà valutare sino in fondo cosa significa e cosa comporta la realizzazione unitaria. Non è più il tempo delle ritrosie, dei non detti, delle piccole furbizie. È al contrario il tempo della verità. Fosse pure quella che molti paventano, e che altri temono: ovvero l’impossibilità concreta del progetto federativo. Ma, come è stato sottolineato da più parti in queste giornate, la svolta di Trump per quanto repellente almeno ha il pregio di costringere gli europei tutti ad un esercizio riflessivo su quello che dovrà essere il loro futuro. Uniti, più uniti di adesso. Oppure divisi, più divisi di adesso.

Ecco dunque che almeno su qualche altro aspetto l’UE dovrà ragionare parallelamente ai temi principali, esteri e difesa: innanzitutto quello sociale, perché la disillusione di tanti nei confronti del progetto deriva anche dal declino del welfare, che molti imputano all’eccessivo rigore contabile imposto da alcuni stati agli altri e codificato dal Patto di Stabilità. Al punto che ogni qualvolta si deve affrontare un’emergenza assoluta ci si deve inventare un’esclusione dallo stesso delle spese sostenute per affrontarla: non a caso se ne parla adesso in relazione all’incremento delle spese militari.

Un Piano europeo per la sanità pubblica e un Piano europeo per l’occupazione dovrebbero divenire i cardini di un’Europa sociale che sola può dimostrare nei fatti alle famiglie, ai singoli cittadini la forza dell’unità fra i popoli del continente.

La guerra in Ucraina ha posto in evidenza la strutturale dipendenza energetica europea. Questa impone la velocizzazione di due percorsi paralleli, entrambi di necessità comunitari e definitori di una auspicabile Unione dell’energia: uno, proiettato verso un futuro prossimo che non potrà, che non può già ora, evadere dal tema (che però è mondiale, non solo europeo) del contrasto al cambiamento climatico e che quindi inerisce la produzione di energia pulita da fonti rinnovabili. L’altro, inevitabile lungo tutto il periodo di transizione (che non sarà di certo brevissimo) non potrà da parte sua evadere da un oggi ancora impostato sui combustibili fossili nel suo percorso verso un domani privo di questi ultimi, teso dunque a reperire gas e petrolio laddove possibile dal punto di vista geopolitico ma attivando acquisti comuni, con conseguente maggior peso nelle trattative sui prezzi, e poi integrazione e coordinamento negli stoccaggi e negli investimenti.

E infine c’è la questione migratoria, quella che da un decennio in qua sta influenzando in maniera netta i risultati elettorali in tutti i paesi europei. Un tema che alcuni si illudono di poter affrontare in una logica di mera chiusura, non capendo che l’esplosione demografica prevista in Africa e gli effetti desertificanti provocati dal cambiamento climatico rafforzeranno il problema, che quindi dovrà essere affrontato e non ignorato a mezzo di improbabili – oltre che disumani – blocchi navali o muri e fili spinati.

Nel clima attuale è difficile anche solo concepirla, ma l’idea che sarebbe vincente è la consapevolezza della necessità di adottare politiche comuni di asilo, superando quella insopportabile divisione fra nord e sud che penalizza i paesi mediterranei. E forse i paesi dell’est, a cominciare dal principale, quella Polonia che si è trovata a dover ospitare l’ondata di rifugiati ucraini in fuga dalla guerra in casa loro, sono ora in grado di comprendere cosa questi eventi – lo spostamento di grandi masse umane – significhino e comportino.

C’è dunque molto da fare. Ma questa è la sfida da vivere per conquistare influenza e forza nel mondo che sta disegnandosi. Mezzo miliardo di europei ancora ricchi e potenti non possono immaginare di rimanere tali se non uniti, abbandonando la divisione in piccole e troppo numerose nazioni in un pianeta ormai popolato da otto miliardi di esseri umani. Erano solo tre quando l’Unione avviò il suo percorso, settanta anni fa: come si vede la percentuale europea sul totale è diminuita, e non di poco. Bisogna prenderne atto, e cambiare.