La polemica esplosa nelle ultime ore a seguito dell’attacco dell’ambasciata russa in Italia a Carlo Calenda rivela un tratto riconoscibile delle crisi contemporanee: la battaglia simbolica è parte integrante della battaglia politica. Accusare un leader democratico italiano di essere inconsapevole del gesto che compie perché tatuato, come sostiene Mosca, non è una semplice provocazione folkloristica. È un tentativo di definire il perimetro morale del conflitto, stabilendo chi può parlare e chi deve stare zitto.
La risposta di Calenda
La replica del segretario di Azione è stata secca, senza artifici retorici: “verrete sconfitti… la libertà vince sulla tirannia”. È un linguaggio che non ricorre a slogan, ma di fatto riafferma le fondamenta elementari della cultura democratica europea. Non è il tatuaggio ad essere in discussione: è l’atto di pretendere di interpretarlo dall’esterno come “appartenenza” ideologica certificata da potenze straniere. Il punto è tutto lì.
Elena Bonetti: stupisce il silenzio degli indecisi
Altrettanto significativa è stata la presa di posizione della presidente di Azione, Elena Bonetti: non stupisce l’attacco russo, stupisce il silenzio degli indecisi. In Italia, nel quadro delle tensioni geopolitiche in essere, specie per quel che attirne alla spinta neo-imperialistica di Mosca, non c’è una via neutrale. Il non schieramento di fronte all’aggressore non è equidistanza, bensì complicità passiva.
Una questione di democrazia europea
Il caso Calenda mette a nudo il vero punto che l’Europa si ostina a non vedere: il Cremlino non attacca solo governi. Attacca le opinioni libere, gli attori politici che ancora rivendicano autonomia critica, il pluralismo, il diritto di segnare simbolicamente il proprio campo.
Per questo, per chi si riconosce nei valori dell’occidente, la solidarietà verso Carlo Calenda non è schieramento di parte, ma riconoscimento di un principio: le democrazie non si fanno intimidire da chi vuole recidere la pianta della libertà e della dignità dei popoli.

