Il Presidente del consiglio è andato a Taranto a incontrare i cittadini, associazioni, sindacati, movimenti. È stato un gesto di umiltà apprezzato dai commentatori e dalla opinione pubblica. Non può però dire che non ha la soluzione e chiedere agli stessi Ministri di offrire indicazioni.
Di fronte alla situazione drammatica di Taranto con il rischio di chiusura e spegnimento degli altiforni del quarto centro siderurgico italiano un governo che nasce con la prospettiva della scadenza naturale della legislatura deve avere ben chiaro cosa deve fare. Avrebbe dovuto innanzitutto procedere con un consiglio dei ministri per rimettere d’urgenza lo scudo penale! Avrebbe eliminato immediatamente alibi ai gestori degli impianti. Pensare di ingaggiare una battaglia giudiziaria tra Stato e ArcelorMittal significa, con i tempi della giustizia italiana, vincere forse una battaglia tra chissà quanto tempo, ma perdere la guerra della siderurgia, mettendo in ginocchio non solo l’economia di Taranto, ma della intera filiera della meccanica che coinvolge numerosi distretti industriali.
Quello che Conte non ha detto è una rappresentazione della realtà che non sono solo i numeri del Pil in discussione ma il futuro degli impianti, la loro riconversione con fonti energetiche a gas piuttosto che a carbone, i volumi produttivi, sia per il mercato domestico che per quello internazionale, soprattutto per l’area del mediterraneo e per le prospettive di ricostruzione in Mesopotamia e in Libia. Uno dei punti di forza della produzione di Taranto erano i tubi per oleodotti e gasdotti, proprio quelli che i sognatori della decrescita felice e della coltivazione delle cozze, vorrebbero impedire!
Quello che Conte non ha detto è il futuro dell’area tarantina nella economia del Mezzogiorno e nel Paese. Cosa che fece magistralmente Aldo Moro che, da Presidente del Consiglio, presenziò alla inaugurazione del polo siderurgico di Taranto – v. “Il Popolo” del 20 novembre 1964 – come strumento essenziale dello sviluppo meridionalistico. C’erano gli effetti moltiplicativi dello sviluppo, l’aumento della occupazione manifatturiera, la crescita dei redditi. C’era un contesto fatto d’impresa a partecipazione statale, la politica meridionalistica, la diffusione delle infrastrutture con l’autostrada Adriatica Bologna-Bari, l’asse Bari-Napoli, l’autostrada del Sole, un insieme integrato per ridurre il costo di trasporto e favorire gli scambi Nord-Sud sia dei prodotti industriali che di quelli agricoli.
In quegli stessi anni nasce, sempre lì, cementificio Cementir. Il polo siderurgico non sorge a caso. Trova ancoraggio nella legge per il Mezzogiorno presentata da Antonio Segni e da tutti i Ministri (la 634 del 1957) approvata in pochi mesi, che offre gli strumenti con i consorzi e le direttive di sviluppo industriale. Relatore di maggioranza fu Michele Marotta mentre quello di minoranza Giorgio Napolitano, il quale, nella visione della sinistra, offrì un contributo di proposte positive nella elaborazione della legge.
Questo era il contesto. Poi la storia è stata demonizzata con la cancellazione delle politiche meridionalistiche e delle partecipazioni statali in nome della ideologia liberista. Oggi i post ideologici vorrebbero utilizzare la Cassa depositi e prestiti senza neppure i controlli del Parlamento così come avveniva correttamente in presenza di intervento pubblico in economia. Ma mancano le idee e soprattutto una visione di insieme, così come aveva indicato Moro, per il quale il “sistema economico meridionale non è più una appendice inerte da sollecitare con scelte per così dire “esogenere” al sistema stesso, ma autopropulsivo e quindi “sempre più integrato nella economia nazionale”.
Non a caso quell’intervento di Aldo Moro fu così titolato da Giuseppe Rossini nel volume terzo degli Scritti e Discorsi: Democrazia e progresso sociale ed economico.
[Dal profilo Fb dell’Autore]