L’artista inglese e il produttore americano Rick Rubin ripercorrono i gloriosi anni dei Beatles sulle note di memorabili melodie. Testo qui ripubblicato su gentile concessione de “L’Osservatore romano”
Hanno il volto rilassato, Paul McCartney e Rick Rubin mentre parlano di musica. Mentre ascoltano, con attenzione, le celebri Michelle, I want to hold your hand, Ehy Jude, Come together e diversi altri brani dei Beatles o di Paul solista. Vanno avanti per tre ore, quasi, l’artista inglese e il produttore americano, lasciandosi attraversare dai suoni originali e commentandoli con un piacere riposante, appassionato e scherzoso, costruendo un’analisi tecnica su cui s’innestano — argomentandola, completandola — i ricordi delle relazioni, delle influenze musicali (c’è anche Bach) alla base di questo o di quel pezzo tanto familiare al mondo, comodamente seduto in un’ideale playlist sul Novecento. La chiacchierata ha il sapore corposo dell’esperienza, il magnetismo dell’eccezionale competenza. L’ascolto reciproco, il sorriso, la riflessione asciutta, sicura, il corpo mosso a ritmo dai due interlocutori durante le canzoni, scandiscono i sei episodi di circa mezz’ora l’uno di questa docuserie snella, informale, con i dialoghi e le memorabili melodie coperte a volte con foto e spezzoni di repertorio audiovisivo dei Beatles, di Paul e di altri musicisti per loro importanti.
Si intitola McCartney 3,2,1 ed è disponibile, dal 25 agosto scorso, sulla piattaforma Disney+, nella sezione Star. Si muovono, McCartney e Rubin, in un bianco e nero costante, forse nostalgico ma anche moderno, in una sobrietà visiva tagliata da una luce tenue che staglia i dialoganti dall’ombra di uno studio di registrazione essenziale, minimale, ampio ma intimo, dove c’è quello che serve: una chitarra, un pianoforte, un mixer da cui partono i brani originali da canticchiare, da fermarsi a ragionare su questo o quello strumento: gli archi in Yesterday, il trombino in Penny Lane, il basso in Something. Elementi, aspetti della genesi creativa — melodica, strumentale o testuale — di questa o quella composizione, mentre le telecamere di Zachary Heinzerling osservano con eleganza i due che parlano. Rubin si siede addirittura a terra, in qualche momento, con la folta barba bianca posata sulla sua t-shirt ad ascoltare Paul che suona un vecchio brano, o che lascia, come reazione a una domanda del produttore/intervistatore, che riaffiorino i ricordi familiari di suo padre al pianoforte, degli incontri giovanili con George Harrison e John Lennon, a Liverpool, di come si conobbero, delle scoperte musicali condivise e poi inserite in brani memorabili nati con semplicità. E ancora Ringo Starr, Amburgo, l’India, l’America, la grande importanza dello storico produttore George Martin: «un uomo interessante», «disponibile a sperimentare», lo definisce il protagonista di McCartney 3,2,1.
Che è la fluente, informale e densa rievocazione di una straordinaria avventura artistica: dagli esordi del gruppo al successo arrivato «progressivamente», e fu «un bene», secondo Paul, con il talento in sintonia con lo spirito di ricerca. «Ci sentivamo professori in un laboratorio» aggiunge, e questa frase offre il titolo a uno degli episodi della serie, che fa rima, e trova approfondimento, con le parole dello stesso Rubin: «Voi mescolavate degli stili ma non vi limitavate a unire due generi, univate due sensibilità. Se i Beatles suonavano un brano con influenze reggae, non era reggae: era comunque un pezzo dei Beatles. Diventava una cosa nuova». Passa anche per la separazione dal gruppo, però, il lungo viaggio di parole di McCartney 3,2,1. Una separazione dolorosa: «Ero a pezzi», ammette Paul McCartney, ma per la necessità e la bellezza dell’«andare avanti costantemente: è questo che amo della vita e della musica, che c’è sempre una nuova canzone», ecco, tra le varie cose, Live and let die, incisa per il film omonimo, James Bond, Agente 007, Vivi e lascia morire, del 1973. Altro frammento di una magnifica discografia e di una vita sempre desiderosa di «scoprire qualcosa che suoni bene», in armonia con quella splendida frase che — si dice — avrebbe detto Mozart, una volta: «Metto insieme le note che si amano».
Una poetica manciata di parole che spiega il titolo di un altro capitolo di questa docuserie pochi fronzoli e tanta sostanza, appetitosa per appassionati di musica e tassello ulteriore dei buoni rapporti tra l’arte dei suoni e il documentario, ovviamente anche diviso per capitoli e raccolto in una serie. E a proposito, vi sarà presto ulteriore occasione di incontro tra i due con The Beatles Get Back: la docuserie di Peter Jackson, che nel prossimo autunno — sempre su Disney+ — racconterà in tre episodi da circa due ore l’uno (dal 25, 26 e 27 novembre) i Fab four, i quattro ragazzi di Liverpool.