Ricordare Franco Marini significa rendere omaggio a un uomo che ha segnato profondamente il cammino dei cattolici democratici e popolari nel difficile processo di organizzazione dell’Ulivo e del centrosinistra. Senza di lui ci sarebbe stata una maggiore dispersione dell’universo post Dc: molti non avrebbero abbracciato il nuovo percorso politico. Del suo carisma nessuno dubitava, trovando anzitutto nella passione del sindacalista, che la politica non avrebbe deformato, l’attitudine a cogliere i bisogni della parte debole della società.
Marini non si sottraeva alle sfide, anzi le cercava. Le sue battaglie, dalla difesa del Partito popolare fino alla costituzione del Partito Democratico, testimoniano un approccio al riformismo che metteva al centro il dialogo e la mediazione, e mai il compromesso al ribasso. Era un uomo capace di fare sintesi, ma sempre con il saldo ancoraggio ad alcuni principi fondamentali.
Egli fu un argine netto alla destra, convinto che la sua sdoganatura avviata da Berlusconi rappresentasse un rischio per il Paese. Allo stesso tempo, fu altrettanto attento a evitare che la sinistra si considerasse eticamente superiore o politicamente egemone, immagindo con ciò la strutturazione di un centrosinistra che fosse davvero plurale.
All’ultimo congresso del Ppi, quello che aprì le porte nel 2002 all’operazione della Margherita, apportò un contributo decisivo. Spiegò alla platea dei delegati che anche la Cisl, all’inizio degli anni ‘50, non si chiuse nel recinto della tradizione, bensì mosse verso l’individuazione di un modello nuovo – il sindacato della contrattazione e della dialettica aziendale – che trasferiva su un altro piano i principi e la prassi dell’antico “sindacalismo bianco”. Pertanto i popolari, mutatis mutandis, dovevano avere la stessa lungimiranza mostrata all’epoca dai dirigenti della Cisl.
Sono del parere che la Margherita fu il “partito plurale”, assolutamente originale, che meglio corrispose alla sensibilità di Marini. L’errore si ebbe quando i più precipitosi imposero una road map che saltava ogni mediazione in nome del “sogno unitario” collegato alla nascita del Partito democratico. Quella precipitazione, frutto di ingenuità e furbizie, non era nello spirito e nello stile di Marini (il quale, infine, dovette cedere alla corrente degli entusiasti).
Agì come sempre con lealtà. E però, il rapporto con il Pd non fu più lo stesso – ne posso essere testimone – quando il partito smise di rappresentare il luogo della partecipazione attiva per diventare lo strumento in mano al leader di turno, senza più quella collegialità di direzione politica che per Marini era essenziale. Fu severo nella critica a chi gli aveva preso “le chiavi di casa”, come disse intervenendo all’assemblea dei delegati che si accingeva a proclamare l’elezione di Bersani alla segretaria. Qualcosa d’irrisolto rimase sempre nel rapporto tra i due, se è vero che la candidatura a Presidente della Repubblica, avanzata proprio da Bersani, fu subito archiviata senza provare ad arrivare alla quarta votazione (a maggioranza semplice) nella quale le chance di successo sarebbero state molto alte.
Ancora oggi fatico a capire cosa avvenne, soprattutto perché a seguire la stessa sorte toccò poi a Prodi. I franchi tiratori si dovevano fronteggiare in altra maniera, magari costruendo con più pazienza il consenso richiesto in una vicenda tanto delicata ed importante. Nella circostanza il Pd dette il peggio di sé e i Grandi Elettori, alla fine, non poterono che chiedere a Napolitano di restare al Quirinale.
Marini non era mai settario, arroccato o chiuso. Piuttosto era insofferente verso i falsi moralisti e gli snob della politica, quelli che s’atteggiano a intellettuali – ammesso che lo siano davvero – distaccati dalla gente. Cattolico autentico ma non clericale, la sua fede appariva lontana da una certa esteriorità di modi e di comportamenti.
Negli ultimi tempi parlava sempre meno dei fatti riguardanti la politica. Traspariva in effetti la delusione per quello che il Pd doveva essere e non è stato, con la conseguente mortificazione del contributo dei cattolici democratici. Agli amici confidava di preferire il silenzio, piuttosto che sopportare il peso, alla sua età, di un processo alle cose compiute ed incompiute. Sta di fatto che il Pd non è più quello delle origini, poiché il suo gruppo dirigente si è messo a rovistare nel “depositum fidei” che attiene esclusivamente all’essere e al dover essere della sinistra.
Che dire, in conclusione? Perso Franco, abbiamo perso non solo un leader, ma un punto di riferimento per chi crede ancora in una politica che unisca radicamento sociale, capacità di mediazione e fedeltà ai principi. Per me la sua lezione resta attuale: costruire ponti, non muri e lavorare perché la politica, appunto, torni ad essere la sede in cui si ragiona e si lavora per il bene della comunità.