La guerra in Israele ha annullato mediaticamente l’attenzione, già di suo molto diminuita a causa del suo lungo protrarsi, per quella in Ucraina. Un problema in più per Kiev, che già da tempo avvertiva il progressivo anche se forse impalpabile allontanamento delle opinioni pubbliche occidentali dal suo dramma: perché di questo si tratta, essendo il paese in una condizione assai difficile, distrutto in molti suoi luoghi, sottoposto a minaccia di bombardamenti tuttora in quasi ogni sua città, con una economia che in queste condizioni ovviamente non riesce a ripartire.
A livello ufficiale la situazione non è mutata: pieno è il sostegno politico e militare da parte dell’Alleanza Atlantica e degli Stati Uniti in particolare, recentemente ribadito e mai posto in discussione. Però, e questo il presidente Zelenskji e i suoi più stretti collaboratori lo hanno ormai ben intuito, quegli stessi governi occidentali avvertono la “stanchezza” delle proprie opinioni pubbliche per una guerra che – vista da fuori – pare trascinarsi stancamente senza nessuna prospettiva di conclusione, né di chiara vittoria di una delle parti in campo.
L’enfasi posta la scorsa primavera su una “controffensiva” che avrebbe dovuto rispedire indietro di molte miglia i russi invasori forse non ha aiutato, in questo senso, posto che i suoi risultati sono stati largamente inferiori alle attese, o a quella che in realtà era solo propaganda di guerra. Anche se – è notizia di ieri – il successo nell’attacco alla base elicotteristica russa di Berdyansk senz’altro verrà enfatizzato nella comunicazione di Kiev.
Alcuni messaggi ricevuti paiono assai preoccupanti, a questo punto, per il governo ucraino. Il principale, probabilmente, è stato il mancato invito da parte dell’India al G20 tenutosi lo scorso mese, a differenza di quanto avvenuto l’anno precedente in Indonesia. Un segnale esplicito della “stanchezza” di cui si diceva ma, soprattutto e di più, una chiara indicazione di quanto della questione ucraina al mondo non occidentale poco interessi. E di quanto il costituendo asse fra i paesi cosiddetti neo-BRICS, tutti fra loro poco amici ma tutti fra loro sostanzialmente alleati nel cambiare le gerarchie del mondo imperniate sulla “civiltà” occidentale, sia ormai poco sensibile alle questioni relative al rispetto del diritto internazionale poste dal prepotente atto di guerra perpetrato da Mosca sul territorio di uno stato sovrano.
Poi davanti a Zelenskji e ai suoi c’è l’incognita elettorale. Non quella interna, che non è neppure detto vi sarà, posto che le elezioni previste per il prossimo anno non sono certe, continuando la guerra e proseguendo lo stato di legge marziale. Bensì quella esterna. A giugno si voterà per il Parlamento europeo, e questo sarà un test importante per comprendere meglio l’atteggiamento degli elettori dell’Unione anche in riferimento alla questione ucraina. Quella “stanchezza”, quella assuefazione favoriranno i partiti nazionalisti meno sensibili ai problemi di Kiev, se non addirittura – come ad esempio l’italiana Lega – vicini o comunque non certo ostili al regime moscovita. E poi, a novembre, il voto negli Stati Uniti confermerà Joe Biden, il più importante e fermo alleato di Zelenskji o al contrario vincerà un repubblicano? Una domanda terribile per Kiev. Perché, come si è visto anche nelle scorse settimane nello scontro al Congresso proprio nel dibattito sui nuovi aiuti militari all’Ucraina, un presidente repubblicano (non necessariamente Trump, col quale la situazione – è scontato – precipiterebbe) sarebbe assai meno generoso di quello oggi in carica. E senza il concreto sostegno militare di Washington la sorte di Kiev sarebbe segnata. E sarebbe una sconfitta netta per il sistema democratico occidentale, però. Questo sarebbe bene non scordarselo.