Un arcobaleno sul cielo di Roma (ben visibile mercoledì pomeriggio) lascia alla cittadinanza smarrita un segno e una speranza. Anzitutto, di uscirne più forti, di “ricominciare a vivere”. Una lunga passeggiata a piedi, da piazza San Giovanni alla stazione Termini, conferma la sensazione — di inquietudine ma soprattutto di tenuta — che emerge leggendo i giornali e ascoltando i notiziari. In effetti, Roma è semideserta, ma non è nel panico.
Questo Ferragosto surreale (anticipato a marzo) provoca un senso di disagio, di spaesamento, una doverosa preoccupazione per l’economia, un legittimo timore per il contagio; ma dà anche il senso di una città che deve e vuole reagire.

Come sappiamo, San Luigi dei Francesi era stata chiusa (ora è riaperta). Altri edifici di culto sono aperti per chi entra a pregare, che poi è il principale motivo per cui si dovrebbe andare in chiesa, al di fuori della Messa. Le mascherine sono terminate, ma le farmacie non sono sguarnite. Qualcuna assicura che sta finalmente arrivando pure l’Amuchina (come nel bellissimo video della parodia di Gomorra). I supermercati non sono presi d’assalto; in alcuni si nota una tendenza all’accaparramento, che rivela abitudini alimentari e stili di vita molto particolari. I ristoranti sono ovunque semivuoti. E’invece frenetico l’andirivieni dei rider in bicicletta (uno dei quali, dall’aspetto asiatico, è stato apostrofato da una signora: “tornatene al tuo Paese di m…”). L’unico luogo di assembramento sembra essere la stazione Termini. Ho visto con i miei occhi passeggeri in lacrime nel tentativo (attualmente vano) di chiamare l’apposito numero per i rimborsi dei viaggi.

Ci sono anche la rabbia e la protesta, per la situazione generale. Quasi nessuno crede che l’Italia sia il Paese più colpito solo perché è l’unico che fa seriamente i tamponi e perché ha una struttura di eccellenza come lo Spallanzani. C’è chi sostiene che il virus sia stato sottovalutato, come se il problema fosse fare scorpacciate pubbliche di riso cantonese per rassicurare i cittadini, anziché metterli in sicurezza. C’è chi invoca un’autorità unica e protocolli unici, che forse avrebbero evitato l’errore fatale commesso all’ospedale di Codogno, che ha innescato il Coronavirus in Italia. C’è anche chi teme che le misure siano forse eccessive e di sicuro deprimenti per l’economia del Paese.

In questi giorni, molti esprimono pubblicamente la propria sofferenza (quasi sempre attraverso i social network). La sofferenza dell’artista rimasto senza pubblico, del medico e dell’infermiere che si ritrovano in prima linea come e più di sempre. E la sofferenza dell’anziano, che vede la morte dei suoi coetanei declassata a evento “inevitabile”, talvolta salutato dai media con un certo sollievo. Inutile girarci intorno: è iniziata una battaglia contro un nemico, ancora poco conosciuto. E la scintilla non poteva che iniziare nell’area più dinamica del Paese, quella più aperta alla Cina e al resto del mondo, anche se il nemico ha colpito non nel cuore ma nelle aree periferiche di quella grande e unica metropoli che è la pianura Padana.

La battaglia non potrà che essere vinta, sia pure a un prezzo che oggi non siamo ancora in grado di valutare e che non dipende del tutto da noi. In questo contesto, quale futuro è possibile per Roma? La consapevolezza della nostra debolezza non potrà che renderci più forti. Presi uno per uno siamo fragili e condannati alla finitezza. Tutti insieme, come cittadini, vinceremo anche questa sfida. E sì che Roma, in duemila anni di Storia, ne ha viste tante.