Un vecchio ed antico slogan della sinistra democristiana che, tra l’altro, conserva una straordinaria attualità e modernità, diceva semplicemente che «la democrazia dei partiti cresce nella misura in cui c’è la democrazia nei partiti». Apparentemente una riflessione ed un concetto del tutto scontati. Ma, particolare non indifferente, tutto ciò era possibile, e soprattutto praticabile, nella cosiddetta prima Repubblica.
Dalla democrazia nei partiti ai partiti personali
Perché la seconda, purtroppo, è stata prevalentemente caratterizzata dall’irruzione dei “partiti personali” o del capo o del guru o del proprietario che, di fatto, hanno del tutto soppiantato e sostituito “la democrazia nei partiti”. Non “la democrazia dei partiti”, perché quella è stata più blandamente sostituita dai cartelli elettorali. E, appunto, dai partiti personali.
Ora, c’è un solo modo che continua a caratterizzare democraticamente un partito. Soprattutto un partito plurale, visto che i partiti identitari sono, almeno formalmente, tramontati. E la ricetta, come sempre, è la presenza delle correnti o delle aree o delle componenti organizzate ed autonome al loro interno. Senza questa articolazione democratica semplicemente la democrazia interna ai partiti non esiste.
La “democrazia dell’applauso”
Certo, “la democrazia dell’applauso”, per dirla con una azzeccata battuta scritta negli anni ’90 dal filosofo e politologo torinese Norberto Bobbio, è destinata ormai ad avere il sopravvento. E la conseguenza concreta della “democrazia dell’applauso” è il quasi scientifico azzeramento di ogni dialettica interna.
Ma, per riaffermare il principio democratico, nonché costituzionale, della democrazia interna ai partiti occorre riconoscere sino in fondo il principio cardine del pluralismo. Perché il pluralismo, checché se ne dica, resta la precondizione essenziale e decisiva che qualifica e nobilita la stessa democrazia. E il pluralismo nei partiti esiste quando c’è il riconoscimento di uno che la pensa diversamente da te. Un concetto semplice, persino banale, ma che resta basilare per qualificare democraticamente un partito.
Correnti espressive o correnti di potere
E il tema di fondo, comunque sia, non è solo quello di riconoscere il ruolo delle correnti o delle aree o delle componenti ma, soprattutto, che le suddette correnti siano espressive. O a livello culturale, o a livello sociale o, almeno, sul versante territoriale. Certo, anche nella Dc non tutto filava liscio. Lo dico perché, per dirla con Carlo Donat-Cattin, «c’erano le correnti di pensiero e le correnti di potere».
Nella concreta situazione dei partiti sedicenti plurali contemporanei sono rimaste però, e purtroppo, solo le “correnti di potere”. Ovvero agglomerati anonimi, indistinti, quasi virtuali che – per ragioni alquanto misteriose – partecipano attivamente alla spartizione del potere interno al partito e, di conseguenza, nelle istituzioni. Cioè nel governo e nel sottogoverno.
La lezione della Democrazia Cristiana
Insomma, le correnti per ritornare ad essere strumenti credibili, seri ed affidabili, devono riscoprire l’esperienza delle vecchie correnti della Dc – almeno sotto il profilo del metodo –, cioè il più grande partito popolare, democratico ed interclassista della storia democratica del nostro paese. E cioè correnti che rappresentavano, attraverso le loro classi dirigenti e la conseguente elaborazione politica e culturale, autentici pezzi di società.
E quando nella società frammentata e segmentata si rappresentano precisi interessi sociali e culturali, si diventa oggettivamente interlocutori. A volte, appunto, le cose sono molto più semplici di quel che appare. E la democrazia interna ai partiti, per tornare alla riflessione iniziale, può riavere la sua centralità ed importanza solo se l’esperienza del passato non viene definitivamente ed irreversibilmente archiviata.

