La politica ha iniziato a perdere colpi quando la sua autorevolezza ha ceduto il passo alla casualità, alla improvvisazione e alla fedeltà al capo di turno. E quando la fedeltà diventa l’elemento centrale, è abbastanza naturale che chiunque possa candidarsi a coprire quel vuoto. Uscire da questa condizione è necessario, ma non cedendo alla tentazione dell’uomo della provvidenza.

Lo dicono in tanti, ma non tutti. Lo pensano quasi tutti anche se permangono ancora titubanze e perplessità. Ovvero, sarebbe – meglio usare il condizionale – opportuno il ritorno della politica nel nostro paese. O meglio, che la politica riconquisti la sua centralità, il suo ruolo, la sua “mission”. E questo perchè è ormai da troppo tempo che abdica concretamente al suo ruolo e cede il suo potere ad altri poteri. Siano essi tecnocratici, legati alla magistratura o agli esperti espressione degli eterni “poteri forti”. E la questione è culminata proprio nel dibattito sull’elezione del futuro Presidente della Repubblica.

Ora, al di là di come si risolve il rebus del Colle, è indubbio che la politica in Italia è in crisi. Una crisi gravissima. A cominciare dai suoi strumenti principali, cioè i partiti politici. E, di conseguenza, la scarsa qualità della classe dirigente e della sua reale leadership. Elementi, questi, che fanno della politica un campo invaso da chiunque dove la sua professionalità – non il suo professionismo – non è più riconosciuta e dove l’avvento dell’”uno vale uno” ha avuto un impatto devastante per la stessa credibilità ed autorevolezza della politica. Certo, sotto questo versante non possiamo non ricordare che la vulgata populista dei 5 stelle ha avuto delle ricadute devastanti per la qualità della nostra democrazia e per la tenuta delle istituzioni democratiche. 

La criminalizzazione politica dei partiti, la liquidazione delle culture politiche, la ridicolizzazione delle classi dirigenti del passato del passato, la sottovalutazione del Parlamento e della democrazia rappresentativa, un massiccio uso del giustizialismo manettaro e, infine, una prassi sfacciatamente populista, demagogica e qualunquista non tramontano così rapidamente nel sentire comune dei cittadini. Si tratta di una sub cultura e di una deriva che hanno contagiato in profondità le radici della nostra democrazia e del nostro tessuto civile che difficilmente possono essere cancellati nell’arco di poco tempo. E questo a prescindere anche dal peso elettorale e politico del partito populista per eccellenza, cioè i 5 stelle di Grillo e di Conte. Perchè i disvalori sono stati spalmati per svariati lustri nelle corde del nostro paese e sono stati esaltati, valorizzati, enfatizzati e divulgati da molti organi di informazione e da larghi settori dell’establishment del nostro paese. Al punto che l’anti politica era diventata la vera politica e la politica tradizionale era un’arma da gettare alle ortiche.

Detto questo, che comunque sia non può essere nè dimenticato e nè sottovalutato, noi sappiamo che la politica può ritornare protagonista se ritornano tre condizioni basilari. Innanzitutto non esiste la politica se non ci sono i partiti. E non solo i cartelli elettorali. Come, del resto, recita la nostra Costituzione. Cioè strumenti politici democratici, collegiali, radicati nel territorio, portatori ed espressione di precisi interessi sociali – e quindi rappresentativi di pezzi di società reale -, riconoscibili attraverso una cultura politica e, soprattutto, dotati di una classe dirigente autorevole e realmente rappresentativa.

In secondo luogo ritorna la politica se fanno nuovamente capolino le culture politiche. Non può esistere una politica se non è espressione anche di una cultura. L’alternativa è molto semplice, ed è quello che è concretamente capitato in questi anni di incontrastato dominio del populismo grillino: e cioè, l’esaltazione del trasformismo politico e dell’opportunismo parlamentare. Ovvero, il peggio della politica. Sotto questo versante, si tratta di riscoprire un elemento distintivo del passato senza alcuna regressione nostalgica o passatista. Ovvero la riconoscibilità culturale dei partiti politici.

In ultimo, ma non per ordine di importanza, la politica si impone quando c’è una classe dirigente riconosciuta ed autorevole. È inutile tergiversare attorno a questo tassello: la politica nella prima repubblica contava perchè la classe dirigente era universalmente riconosciuta come preparata, competente, radicata nel territorio ed espressiva ed interprete di pezzi della società italiana. Salvo eccezioni, come ovvio. La politica ha iniziato a perdere colpi quando la sua autorevolezza ha ceduto il passo alla casualità, alla improvvisazione e alla fedeltà al capo di turno. E quando la fedeltà diventa l’elemento centrale della selezione della classe dirigente, è abbastanza naturale che il degrado e la non credibilità della politica sono dietro l’angolo e chiunque può candidarsi a coprire quel vuoto. Ed è poi del tutto inutile lamentarsi in un secondo momento se c’è qualcuno che supplisce a quella carenza. E anche con autorevolezza e capacità, com’è capitato realmente in questi ultimi anni.

Ecco perchè la politica è arrivata ad un bivio. E cioè, o asseconda la moda di turno – di norma di stampo populista, demagogica e anti politica – oppure inverte la rotta recuperando, ed aggiornando, alcuni caposaldi del passato democratico della nostra storia repubblicana. L’alternativa, come sempre, è quella di attendere l’uomo della provvidenza di turno che ci promette di risolvere tutti i problemi.