Il premierato della Meloni altera il fondamento della Costituzione repubblicana

La riforma potrebbe alterare gli equilibri istituzionali attuali, in primis con una deminutio del ruolo del Presidente della Repubblica, ma anche con un ridimensionamento ulteriore del ruolo di rappresentanza del Parlamento.

Stando agli ultimi sondaggi se si applicasse il principio di rappresentanza parlamentare ipotizzato dal progetto di Riforma Costituzionale proposto dal Ministro Casellati – che prevede l’attribuzione del 55% dei seggi al partito o alla coalizione più votati dagli elettori – l’attuale Presidente del Consiglio verrebbe eletta premier con una percentuale che oscilla dal 28,6% di FDI al 44% del centro destra. Un conteggio fatto a spanne di cui andrebbe preliminarmente precisato che – stando ai dati del 2022 – riguarderebbe il 63,8% dei votanti rispetto al 36,2% degli astenuti. Anche considerando la percentuale più favorevole (applicabile per mera immaginazione ad una coalizione di orientamento politico opposto, tipo “campo largo, per restare nel politichese) un presidente del consiglio verrebbe eletto dal 44% del 64% degli elettori, ammesso e non concesso che il dato delle astensioni (in continua crescita ad ogni elezione) restasse quello attuale.

Come garbatamente osserva il Presidente emerito della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli, in un articolo su il Quotidiano del Sud del 4/11 u.s. il disegno di legge Casellati “ha come obiettivo quello di assicurare la stabilità della maggioranza e del governo per la durata della legislatura, in modo da consentire l’attuazione di un programma quantomeno di medio periodo. Sono obiettivi che possono essere condivisi e che rispondono a esigenze avvertite da tempo”. Una questione che esiste da sempre, basti pensare alla legge 148/1953 (poi abrogata con la legge 615/1954) che attribuiva un premio di maggioranza consistente nell’assegnazione del 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse superato il 50% dei voti validi ma che non sortì alcun effetto in quanto alle elezioni le forze politiche apparentate ottennero il 49,8% dei voti e il meccanismo previsto dalla legge non scattò per circa 54.000 voti, ovvero circa lo 0,2% dei suffragi.

Se il progetto attuale viene definito da Meloni come “la madre di tutte le riforme”, possiamo senza indugio affermare che il tema della governabilità è il padre infedele e poligamo della storia politica italiana del dopoguerra. Le abbiamo provate tutte, dal proporzionale al maggioritario, dai monocolori ai governi tecnici, dalle coalizioni al trasformismo parlamentare più incestuoso ma 68 governi in 75 anni di legislatura esprimono una fragilità di sistema.                                   Il Prof. Mirabelli si chiede se non esistano altre vie che rafforzino la stabilità e la durata degli esecutivi. L’attuale sistema elettorale non lo consente e nello stesso tempo spiega la disaffezione degli elettori per il voto: dopo il tramonto delle storiche ideologie i partiti si sono via via personalizzati perché i rispettivi leader hanno assunto una concezione proprietaria del potere, la frammentazione delle forze politiche non corrisponde ad orientamenti e visioni di modelli di società e di Stato ma a calcolati interessi che nulla hanno a vedere con il bene dei cittadini. Si assiste sovente a giochi di potere indecorosi e ci si chiede come la gente potrebbe accalorarsi e parteggiare non traendone alcun vantaggio in termini di benessere collettivo e non riconoscendosi in una rappresentanza fatta da designati e non da prescelti.

La riforma potrebbe alterare gli equilibri istituzionali attuali, in primis con una deminutio del ruolo del Presidente della Repubblica (in realtà l’unica figura in grado di interpretare l’unità nazionale e la totalità dei cittadini) ma anche con un ridimensionamento ulteriore del ruolo di rappresentanza del Parlamento (dopo la falcidie voluta da Di Maio). Uso ancora le sagge e lungimiranti parole del Presidente Mirabelli…” si può forse sostenere che, di fatto, non sarà più il Parlamento a dettare l’indirizzo politico al governo ma sarà il governo a imporre al Parlamento il proprio indirizzo politico”. Una prospettiva lontana anni luce dal disegno istituzionale voluto dai padri costituenti che – nel bene e nel male – ha sempre garantito la salutare pratica del confronto democratico.

In conclusione l’ipotizzata riforma costituzionale rafforzerebbe più il potere dei partiti e dei loro capi che non la stabilità del quadro istituzionale, In particolare la limitazione delle attribuzioni del Capo dello Stato ci priverebbe di un ruolo di garanzia, di equilibrio e tutela degli interessi generali, consegnando super poteri all’esecutivo e al premier, talmente blindati da prevedere una successione interna come nelle più blasonate monarchie.