Costruire una visione di centro del cambiamento geopolitico in corso

Le prossime elezioni europee potrebbero costituire l'occasione giusta per mettere insieme non solo delle sigle, ma innanzitutto una visione di centro dei problemi geopolitici.

L’attivismo sulla scena internazionale del presidente del Consiglio non risponde solo a una volontà di protagonismo della Meloni, ma in qualche modo riflette il peso che la geopolitica riveste in una fase di passaggio d’epoca come quella che stiamo vivendo. Parafrasando Ralph Nader, si potrebbe dire che se non ci occupiamo della politica estera, la politica estera si occupa di noi e i suoi effetti sono percepibili da tutti nella vita quotidiana.

La destra, dal canto suo, ha nell’idea di nazione la sua stella polare, che almeno in teoria, al netto di interessi contingenti, le permette di leggere gli avvenimenti su scala europea e globale, secondo una prospettiva ben definita e piuttosto percepibile dall’elettorato che tende a premiarla, come è successo nuovamente domenica scorsa in Grecia con il successo di Mitsotakis (che ha scelto di prestare giuramento religioso davanti a Sua Beatitudine Ieronimos II, capo della Chiesa ortodossa greca).

La sinistra d’altro canto, tende a vedere le società naturali, a partire dalla famiglia per arrivare fino alla nazione, più come un ostacolo per l’affermazione di una società senza radici culturali e “senza frontiere” ma a senso unico, nel senso che il mondo non dovrebbe opporre frontiere a un modello di società, e di governance, deciso e promosso da determinati ambienti ai vertici del potere occidentale. Un modello alla fine neocoloniale perché basato sul doppio standard dei giudizi, non attrezzato a esprimere adeguato rispetto verso culture e sistemi politici e istituzionali diversi da quelli occidentali. La sinistra mostra nei fatti di rifarsi ancora a una concezione tolemaica della geopolitica, dove l’Occidente occupa il centro rispetto agli altri sistemi regionali. Tuttavia, va tenuto presente che i leader attuali della sinistra –  Elly Schlein, perché è una insider del potere “americano”, Giuseppe Conte perché dà del tu al trasformismo – sembrerebbero esser ben posizionati rispetto a un possibile cambio di linea sull’evoluzione in atto del quadro internazionale, che inevitabilmente dovrà arrivare dal centro del nostro sistema, dagli Stati Uniti. Credo dunque sarebbe un errore considerare la sinistra come destinata a prolungare indefinitamente il proprio sostegno all’ancien régime. Non appena Washington avrà sdoganato il multipolarismo, ci si deve attendere che i leader del campo largo della sinistra saranno i primi e i più svelti a interpretare quell’atteso cambio di linea in Italia.

Il centro in Italia, a differenza che in Francia e ancora, fin che potrà reggere, in Germania, sembra tardare a uscire da una pluridecennale situazione di frammentazione e di personalismi, da una situazione da maionese impazzita, in cui i pur validi ingredienti costituiti dalle culture politiche di riferimento non riescono a produrre un’amalgama significativa per l’elettorato e per il Paese. Le prossime elezioni europee potrebbero costituire l’occasione giusta per mettere insieme non solo delle sigle, ma innanzitutto una visione di centro dei problemi geopolitici. La destra e la sinistra hanno una loro visione, anche piuttosto ben comprensibile all’elettorato. Mentre il centro fatica a ritrovarsi attorno ad alcune idee guida caratterizzanti. Tra queste idee da declinare nel contesto attuale vi è senz’altro quella della sussidiarietà come alternativa a anacronistiche e miopi visioni nazionali. Vi sarebbe inoltre, un’autostrada da percorrere, se solo si avvertissero le motivazioni per farlo, costituita dal problema di come ci poniamo, come Paese e come Occidente nei confronti degli “altri”, a cominciare  dall’ambito G20, il vero organismo politico globale. La tragica emergenza della guerra in Ucraina, non può farci dimenticare un più ampio problema aperto, costituito dal tipo di rapporto fra Occidente e Resto del Mondo, dove in questo secolo per le nuove proporzioni demografiche, geografiche, economiche il resto siamo diventati noi.

Il centro deve costruire e saper trasmettere all’elettorato, una propria visione delle relazioni internazionali improntata al realismo, alla gradualità, alla pari dignità e reciprocità con gli altri popoli e sistemi, al multilaterarismo possibile. Una visione adeguata al nostro secolo e capace di esprimere un’idea positiva di composizione dei contrasti ma soprattutto di affermare il prevalere di una logica win-win, di reciproco vantaggio sull’attuale miope via del confronto muscolare e sull’ossessione di ricercare sempre e comunque un nuovo nemico da combattere.

Così facendo, il centro può reagire alla sfida di Giorgia Meloni che ha denominato “Piano Mattei” la strategia italiana verso un continente che sta diventando protagonista sulla scena internazionale, l’Africa. Ma per poterlo fare occorre ritornare a Mattei per capire il nostro futuro. Il presidente del Sudafrica Ramaphosa, commentando la missione di pace africana per l’Europa, ha indicato nelle pressioni ricevute da un importante stato occidentale sui governi dei Paesi promotori, un ostacolo a cui tutti e sette gli stati hanno risposto nello stesso modo: non si accettano intromissioni. È questa la vera forza dell’Africa oggi. Sono sempre più i governi che chiamano cinesi, americani, russi, indiani, europei a collaborare per progetti di sviluppo alle loro condizioni, e stanno sparendo i governi che accettano di farsi corrompere dagli stranieri per svendere le ricchezze dei loro Paesi. Allo stesso tempo occorre prendere atto, anche alla luce della, reale o presunta che sia, rivolta in Russia, che lo schema che prevedeva la progressiva cooptazione nel club dei miliardari occidentali dei nuovi ricchi della globalizzazione, è fallito. Non solo in Russia, ma anche in Cina e in altri grandi Paesi emergenti. La gran parte di questi nuovi ricchi sono stati man mano “arruolati” alla causa dello sviluppo dei loro Paesi, anziché a quella dell’egemonia occidentale.

In conclusione, non sembra una missione impossibile quella di costruire un centro con una politica estera all’altezza delle sfide che pongono i nostri tempi. C’è solo da fare un salto di qualità genetico: passare dal primato di personalismi di piccolo cabotaggio al primato di una visione politica adeguata ai tempi.