Facciamo finta di trovarci nell’Antica Roma, in un periodo di grande transizione politica. La sua ascesa inizia nell’80 a.C. L’ “uomo nuovo” si prepara alla propria scalata politica e militare: parlo di Marco Licinio Crasso, nato nel 114 a.C. Nel 72 fu pretore, dunque responsabile dell’alta sicurezza della Repubblica. La sua carica prevedeva non soltanto l’uso dell’actio (imperium), ma anche della iurisdictio; cosa molto gradita nell’antichità in cui le persone erano emotive e amavano fidarsi soltanto di persone che avessero pieni poteri nel loro ruolo istituzionale. Verrà reso celebre dalla sua appartenenza ad un triunvirato, ovvero un governo diviso da tre uomini eminenti, tra i quali lui aspirava ad emergere in qualunque modo.
Grande accumulatore di beni, anche grazie alla sua attività politica, Crasso vide che gli argomenti oratori erano inutili se il popolo romano poteva essere “manipolato” attraverso l’individuazione di un nemico ben riconoscibile. Per questo motivo approfittò della rivolta spartachista, che provocò un’emergenza senza precedenti nella Penisola. Gli schiavi immigrarono nel Meridione, superando Metaponto e minacciando di invadere tutta l’Italia. Per controllare il flusso della gente servile, che agognava a uno stile di vita libero e di certo migliore del precedente, il Senato aveva varato una serie di misure che tuttavia si erano rivelate insufficienti. Fu a quel punto che Crasso seguì la scia dell’odio contro i servi, alimentandola con discorsi inerenti il “ritorno alle origini religiose dell’Impero”, in particolare al culto degli antenati e al rispetto delle divinità nazionali, da lungo tempo dimenticate dai Romani, inclini alla distrazione e all’ozio. Oltre ogni previsione tutto questo funzionò: ma soltanto teoricamente. Nonostante Crasso e i suoi luogotenenti si prendessero il merito di alcune imprese contro gli schiavi che, in effetti, avevano smesso di compiere le loro scorribande, la ripresa economica di una Repubblica falcidiata dal deficit (in parte dovuto alle spese della politica) non arrivava.
Crasso si fece sempre più nemici; ma era protetto dal suo status, dal suo denaro e dalle sue guardie. Il partito di opposizione, composto dai Senatori meno conservatori, minava continuamente il suo operato. I senatori cercavano ogni pretesto buono per screditarlo agli occhi della plebe. I “partito della plebe” apparteneva alla vecchia classe egemone. Sebbene non fossero tutti figli di uomini ricchi, si erano arricchiti con l’attività politica, mascherandola sempre attraverso una farsesca vicinanza con il popolo. Per questo motivo la maggioranza dei Romani aveva preso col seguire le parole e le imprese di Crasso. Eppure, alla fine di un’estate del 70 a.C., Crasso fece qualcosa che destò la sorpresa di tutti: proprio mentre si preparava a concludere le sue imprese, con un pretesto banalissimo e improvviso (si pensa alla brutta figura che fece un suo parente, ufficiale dell’esercito) si dimise da ogni carica, ritirandosi a vita privata. In questo modo Crasso aveva revocato la sua fiducia nei confronti del Senato e, allo stesso tempo, in molti cedettero ad un atto di coraggiosa responsabilità.
Tutti in principio non compresero il suo gesto, tanto che, pensarono, fosse stato mal consigliato. Invece, come si vide soltanto in seguito, quello di Crasso fu uno stratagemma sopraffino. Il suo coraggio era quello del giocatore d’azzardo. Entro la fine dell’estate Crasso non fu più al governo. Nel mese di settembre-ottobre Roma dovette trovare miliardi di sesterzi che Crasso aveva lasciato nel buco che aveva creato per finanziare le sue imprese. In particolare: milioni di sesterzi per il finanziamento delle spese contro gli schiavi, milioni per finanziare la ripresa economica (la vita media dei romani era piuttosto alta e in molti auspicavano di ritirarsi a vita privata prima della vecchiaia), milioni destinati alle spese di cittadinanza, imposte dai suoi alleati più “moderati”, e milioni per coprire il buco causato dalla mancata crescita economica e per gli sgravi fiscali promessi. In tutta questa enormità di denaro da trovare, la Repubblica non centrava nulla e nemmeno il Senato, nemmeno gli schiavi ribelli: era stato tutto causato dal costo delle politiche del governo, che aveva in Crasso il suo miglior capitano.
Anche la questione degli schiavi era stata trattata con leggerezza, appositamente per far crescere l’emergenza: essi avevano smesso di creare disordini ma soltanto perché avevano costruito un grande centro di accoglienza, rivolto ai loro simili, anch’essi fuggiaschi, sulle coste Brindisine. Non erano certo scomparsi. Crasso lo sapeva. Sapeva che il Senato avrebbe dovuto coprire tali spese, chiedendo al tesoro un nuovo aumento della tasse, magari una patrimoniale. Il governo sarebbe caduto comunque. Che fare? Semplice, fare quello che fece: adducendo a ragioni d’onore fece in modo da levarsi di torno anzitempo, ma soltanto per tornare più forte di prima, forte di un nuovo e rinnovato consenso. Quando la Repubblica si trovò a constatare il buco economico e il problema della rivolta schiavista, fu il panico. Crasso e i suoi, non più membri attivi di governo, poterono dare la colpa di tutto a chi li aveva costretti al ritiro, alla rottura della governabilità, alla crisi politica che li aveva costretti a defilarsi anzitempo. I “poteri forti”, i politicanti, i buonisti, i falsi benefattori del popolo, avevano congiurato contro Crasso ed avevano vinto. Ma non tutto era perduto. Una volta all’opposizione, Crasso attese il momento giusto, la crisi nera, la rabbia generale. Fu a quel punto che fece finta di ingoiare il rospo, di dover “sacrificarsi” per la nazione e scendere di nuovo in campo, questa volta da numero uno.
Quando il Senato, in extremis, fece la patrimoniale sui conti dei cittadini romani, Crasso ebbe il pretesto per dire che lo avevano mandato via proprio per derubarli. Il bello fu che i Romani ci cedettero. Stettero dalla sua parte, inferociti, senza sapere che lo sfascio dei conti era stato causato dai suoi. Crasso, il banchiere di Roma, il capitano delle armate, venne “eletto” Primo Console della Repubblica, ovverosia dittatore. Sterminò Spartaco e la rivolta degli schiavi e la gente applaudì. Non applaudì più quando le sue guardie cominciarono a tagliare le mani a molti. Ma a quel punto aveva pieni poteri e non gli si poteva dire più niente.