Intervista a Gilberto Bonalumi, classe 1941, leader dei giovani Dc dal 1967 al 1971, poi Parlamentare sia alla Camera che al Senato, dal 1972 al 1992, sottosegretario agli Esteri nei governi Goria e De Mita, poi presidente dell’Ipalmo, promotore di Rial e Ial, associazioni per lo sviluppo delle relazioni con l’America Latina.
Maurizio Eufemi
Caro Gilberto, gettiamo anzitutto uno sguardo sugli esordi. Quale ricordo conservi dell’approccio alla politica?
Ho iniziato quando i partiti erano importanti e i gruppi giovanili altrettanto. Sono stato delegato dei giovani democristiani del mio comune, poi delegato provinciale di Bergamo, infine delegato nazionale dal 1967-1971. Ho percorso tutte le tappe ed è stata un’esperienza molto formativa.
Quindi sei arrivato al vertice del Movimento giovanile nella fase calda del ‘68, in piena contestazione?
Esattamente. Ricordo bene la grande protesta universitaria, a Valle Giulia, con gli scontri violenti tra manifestanti e polizia. Moro era Presidente del Consiglio e chiamò i dirigenti delle organizzazioni giovanili dei maggiori partiti. Ci trovammo allo stesso tavolo io, in rappresentanza del Mgdc, e Claudio Petruccioli, all’epoca segretario della Fgci.
Che fece in quella circostanza Moro?
Ci interrogò. Voleva capire da noi cosa stesse accadendo. Non gli sfuggiva la novità e, insieme, la complessità degli eventi. Fu l’occasione, diretta o indiretta, per mettere a fuoco una iniziativa del partito. Ciò si tradusse in una grande manifestazione, al Palazzo dello Sport di Bologna, in apertura della campagna elettorale del 1968. Riuscimmo a coinvolgere 30.000 ragazzi provenienti da tutta l’Italia, raccogliemmo l’entusiasmo che trasondava dal mondo studentesco, mettemmo i paletti giusti tra contestazione e mobilitazione violenta. Noi proponevamo il mito della Nuova Frontiera e guardavamo a Robert Kennedy e George McGovern, quindi all’ala progressista e pacifista – pesava la guerra del Vietnam – all’interno del Partito democratico americano. Comunque stava finendo un ciclo, anche in seno alla Dc: Moro si apprestava a lasciare la Presidenza del Consiglio e si profilava all’orizzonte l’arrivo del segretario Rumor, l’uomo più rappresentativo del gruppone doroteo, destinato dopo le elezioni a traslocare da Piazza del Gesù a Palazzo Chigi.
Cosa avvenne subito dopo? Intendo dire, quale sviluppo ebbe l’iniziativa di Bologna?
Ecco, Moro mi chiamò per ringraziarmi e venne fuori tutto un discorso…Si capiva che dentro di sé maturava il pensiero di una inevitabile modifica del quadro politico, con il rischio di uno smarrimento della Dc. A un certo punto del colloquio si lasciò sfuggire una frase: “…dobbiamo prepararci a lasciare la mano…”. Avvertiva la spinta di un sommovimento che si ripercuoteva sul governo, mettendo in crisi la sua stessa leadership.
Nella geografia democristiana non appartenevi alla corrente di Moro, eppure avevi un rapporto di vicinanza con lui.
Una cosa che non è mai apparsa in nessun libro o in nessuna intervista accadde in occasione della riunione del 28 febbraio 1978 ai gruppi parlamentari con il discorso di Moro per varare il governo della solidarietà nazionale. Pochi sanno che se la proposta contenuta in quel discorso fosse stata messa in votazione secondo me, probabilmente, sarebbe stato bocciata. Perché passò? Perché l’on. Franco Salvi, che era il vero “confessore”, il vero amico del cuore di Moro – quando si parla degli amici di Moro si parla di tutti, meno che di Franco Salvi! – quando Moro iniziò a parlare mi disse: “Qui sento aria brutta, intanto che Moro parla, tu raccogli le firme”.
Sto cercando il documento tra le mie carte d’archivio. Diedi a Zaccagnini, che presiedeva la riunione, le 286 firme raccolte. Quando Moro finì di parlare, Zaccagnini disse: “Il collega Bonalumi ha consegnato 286 firme, quindi ritengo la proposta di Moro approvata”. E chiuse la riunione.
Chi più si agitò fu Donat Cattin, che voleva invece discuterne in ragione dei suoi timori a riguardo di un’ulteriore apertura al Pci. Non era scontato l’appoggio della maggioranza dei Gruppi parlamentari. Senza l’operazione suggerita da Franco Salvi, avremmo corso dei rischi altissimi. Se si fosse aperta la discussione, potevamo benissimo finire sotto.
Ero presente in quella riunione notturna, ne respiravo la tensione. Della raccolta di firme che Salvi ti chiese di organizzare non conservo memoria. Seguivo passo passo il discorso di Moro, la profondità dei suoi ragionamenti, l’esigenza dell’unità di partito. A un certo punto l’apertura fece un’apertura a Scalfaro: evidentemente intendeva tranquillizzare la destra della Dc.
Sono frammenti di una storia che gli eventi hanno travolto. Pochi giorni dopo, infatti, ci fu il rapimento di Moro. Votammo in tutta fretta la fiducia al governo Andreotti nel clima di allarme e sconcerto determinato dall’eccedio di Via Fani. Il Paese era sotto assedio.
Torniamo alle tue vicende. Prima di diventare segretario nazionale dei giovani democristiani già frequentavi l’ambiente di partito?
Sì, mi sono lasciato prendere dalla politica molto presto. Non ancora maggiorenne, frequentando l’oratorio del mio paese, ho iniziato a capire, a contatto con gli altri, che i nostri ideali giovanili avevano bisogno di strumenti. Sicuramente il partito rappresentava il veicolo più efficace per mettere in pratica le aspirazioni che guidavano la nostra ansia d’impegno.
I tuoi riferimenti chi erano, sia locali che nazionali?
L’ambiente giovanile bergamasco era formato da leader naturali, destinati ad esercitare ruoli importanti nel partito e nelle istituzioni. Granelli, ad esempio, ben presto si trasferì da Bergamo a Milano, trovandosi sotto l’ala protettiva di Marcora. Altri invece entrarono nel Pci e tra questi, successivamente, alcuni fecero la scelta del Manifesto. Mi riferisco a Giuseppe Chiarante, che non viene associato normalmente alla realtà giovanile della Dc bergamasca; così come pure Lucio Magri, cugino in seconda di Luigi Magri, oggi direttore dell’ISPI, la cui parabola politica coincise con l’animazione delle battaglie a sinistra del Pci, lungo l’asse della critica al burocratismo di un apparato vecchio, anche ideologicamente, e prigioniero del suo rapporto con Mosca.
Andrebbero anche menzionati quei personaggi che non ebbero la ventura di “sfondare” sul piano nazionale: per tutti Gian Pietro Galizzi, figlio del più grande grande latinista, divenuto negli anni ‘90 sindaco di San Pellegrino.
Nella direzione nazionale del Movimento giovanile Dc trovai Gianfranco Astori, responsabile del settore scuola, poi Pierluigi Castagnetti, Mario Tassone, Elio Fontana di Brescia, Renato Grassi di Messina, Michelangelo Agrusti di Pordenone, Adriano Paglietti e Paolo Cabras di Roma, Rodolfo Brancoli, poi corrispondente Rai.
Qual era tua collocazione all’interno della Dc?
Per le ragioni che ti ho detto, sono sempre stato nella sinistra di Base. Qual era l’impianto teorico di questa corrente? La Base si definiva una sinistra “laica”, volendo con ciò significare che prediligeva l’esame dei problemi politici al di fuori di qualsiasi approccio di tipo integralistico. Bisognava rompere le gabbie ideologiche per aprirsi alla modernizzazione del Paese. Ecco, basterebbe che “Gingio” Rognoni recuperasse gli unici due numeri de “Il Ribelle e il Conformista”, un periodico a forte impianto culturale che il nucleo bergamasco, valorizzato intelligentemente da Albertino Marcora, immaginava come sua carta d’identità politica. Aveva spunti di grande interesse. In ogni caso, non si avvertiva l’angustia del provincialismo. I contatti con altre realtà in giro per l’Italia davano slancio alla nostra azione: non eravamo isolati. Uno scambio costante avveniva con i nostri amici di Milano, Avellino, Novara, Firenze…Qui Nicola Pistelli aveva fondato la rivista “Politica”. Lo abbiamo perso ancora giovane, per un incidente stradale, ma ha lasciato un segno indelebile nella esperienza della sinistra dc. Mi piace ricordare che a Bergamo il mio circolo era intitolato proprio a lui, Nicola Pistelli.
Anche Vincenzo Gagliardi di Venezia faceva parte di questa rete?
Sì, anche lui. Era tutto un filone di personalità emergenti nei vari contesti locali. A Venezia c’era anche Wladimiro Dorigo – una mente eclettica – con la sua rivista “Questitalia”: si leggeva con enorme interesse, per quanto era fatta bene. E visto che mi solleciti, mi permetto di accennare alla presenza femminile all’interno della nostra area politica. Come non parlare, dunque, di Lidia Brisca Menapace? Anche lei, dopo tante battaglie nella Dc, finì per approdare nei ranghi della sinistra…più a sinistra del Pci.
Tu scrivevi su “Per l’Azione”, il periodico dei giovani dc?
Chi seguiva da tempo il settore stampa a livello nazionale era Francesco Mattioli, finito poi a Bruxelles come corrispondente della Rai. Dalle ceneri di “Per l’Azione” nacque poi, come organo ufficiale del Movimento giovanile, “Italia Cronache”. Io sono arrivato dopo questa stagione.
Allora è meglio andare nuovamente alle vicende di Bergamo. Con Filippo Maria Pandolfi come erano i tuoi e vostri rapporti? Lui non era un dossettiano?
Discreti. Quella radice, il dossettismo, non aveva più la valenza di una volta. Erano intervenuti cambiamenti di un certo rilievo nella struttura del partito. La Dc a Bergamo aveva tre gruppi fondamentali: i dorotei, i fanfaniani e i basisti. Pandolfi, uomo d’intelligenza notevole, rappresentava il filone che potremmo definire “doroteo-moroteo”. Invece i fanfaniani erano guidati da Enzo Berlanda, parlamentare di lungo corso e poi Presidente della Consob.
Ho ben presente Berlanda: fece la riforma dell’Autorità sul risparmio e intervenne sull’ordinamento della Borsa con l’obiettivo di potenziarla, modernizzarla e adeguarla ai tempi nuovi…
Insieme a Pandolfi, a capo dei “moro-dorotei” operava Giovanni Battista Scaglia. Di noi, ovvero della sinistra di Base, ti ho già detto abbastanza. Questi erano, appunto, i tre gruppi più forti. In Lombardia, in particolare a Bergamo e Milano, contava meno la sinistra sociale di Carlo Donat-Cattin. Non aveva il peso che in altre regioni la rendevano più incisiva. Nulla a confronto della nostra ramificazione estesa e robusta: a Como Lecco e Varese operava corposamente quella sinistra di Base che annoverava, oltre il fondatore Aristide Marchetti, figure di grande spessore come Cesare Golfari e Giuseppe Guzzetti. E a Brescia avevamo Mino Martinazzoli, espressione colta del mondo cattolico e democristiano locale. Questa fioritura di classe dirigente, molto apprezzata anche all’esterno della Dc, la si deve per molti aspetti a Marcora, il cui prestigio rimontava alla periodo della Resistenza, quando operò nella brigata dei partigiani cristiani guidata da Alfredo Di Dio.
Hai toccato il tasto della Resistenza e mi vengono in mente le polemiche esplose in occasione dell’ultimo 25 aprile. Ora, ti chiedo, come vedi la vicenda del pacifismo?
L’uomo che su questi temi mise più in difficoltà De Gasperi fu certamente Giovanni Gronchi, futuro Presidente della Repubblica. Come sai, proprio sulla scelta atlantica si manifestarono opinioni contrarie nella Dc (non solo da parte dei dossettiani). Gronchi non era estraneo alle iniziative, nascoste o palesi, che miravano a infrenare la politica euro-atlantica di De Gasperi. Con il senno di poi, dobbiamo riconoscere che se fosse nata la Comunità Europea di Difesa (CED), cruccio dello statista trentino fino alle ultime ore della sua esistenza terrena, molte preoccupazioni sarebbero rientrate, dando una curvatura diversa al confronto politico dei decenni successivi.
Noi giovani, comunque, non ci tirammo indietro. Anche a costo di censura dei vertici di partito, alzammo la voce sulla guerra del Vietnam. Clamoroso fu l’episodio che segnò – dietro le quinte – il grande convegno di Milano, da me organizzato nel 1969 come Delegato nazionale, dal titolo emblematico: “Per fare la pace cambiare la NATO”. Mariano Rumor, allora segretario del partito, inviò in missione il brillante sottosegretario alla Difesa, Francesco Cossiga, con l’incarico di visionare il discorso che avrei pronunciato a chiusura del convegno
Ti volevano controllare?!
Beh… certo!
Che volevate? Qual era il significato dell’iniziativa?
Uscì un libro della Dc di Firenze, devo dire un libro che fece molto scalpore. La tesi fondamentale era questa: certamente la NATO poteva rimanere in piedi, come struttura militare, ma era necessario recuperare il disegno europeista della CED. Ecco, noi giovani eravamo su questa linea.
Ma il dissenso interno alla Dc sul patto Atlantico – peraltro riassorbito da De Gasperi con il metodo democratico – era anche di ordine economico per non far mancare risorse alla economia, alla ricostruzione e allo sviluppo. Forse una preoccupazione eccessiva alla luce del successivo miracolo economico…
Anche adesso la battaglia sul 2 per cento del Pil è ridicola. Se avessimo davvero la forza di riattualizzare la CED, non ci sarebbe spazio per queste preoccupazioni di ordine economico. Con l’esercito unico europeo si può anche risparmiare. Il nocciolo del problema è tutto qui.
Alle volte si ha l’impressione che le forze politiche che conosciamo oggi non siano in grado di gestire processi così impegnativi. Perché l’europeismo non va avanti? Perché le posizioni sono così differenziate?
La tua non è un’impressione fuori luogo. Ci dovrebbe essere più determinazione e lungimiranza, invece ci si perde in polemiche anguste. Per questo siamo in panne. La questione la si può risolvere se interviene una scelta analoga a quella immaginata per la CED e soprattutto se la Francia, con Macron appena reinsediato all’Eliseo, avesse il coraggio di rinunciare al seggio permanente dell’Onu a favore dell’Europa. Tanta incertezza su questo, aggravata per altro dalla sciagurata operazione della Brexit, non fa che appesantire e talvolta vanificare l’iniziativa della Ue.
In effetti è così! Vado ancora avanti. M’incuriosisce il percorso che hai seguito una volta uscito dal circuito politico in senso stretto. Ad esempio, finito l’impegno parlamentare, ti sei dedicato all’Ipalmo. Immagino che le relazioni internazionali accumulate nel tempo ti siano tornate particolarmente utili.
Lo confermo. All’Ipalmo ho potuto dare seguito a tante idee che la conoscenza di uomini e situazioni legavano a una prospettiva di sviluppo concreto. Ma mi sono dedicato anche ad altro. Ho lavorato allo sviluppo di una struttura chiamata Rial, fondata da Fanfani nel 1954, che vedeva in origine la presenza della Camera di commercio di Milano, dello stesso Comune Milano, della Regione Lombardia e del Ministero degli Esteri. Il lavoro sull’America Latina, in particolare, ha determinato due grandi risultati: il primo si riferisce all’istituzione a quella conferenza biennale che oramai, tramite un’apposita legge, è stabilmente organizzata dal Ministero degli Esteri; l’altro, a seguire, indica il fatto che Milano, senza questo lavoro, l’Expo del 2015 non l’avrebbe vinta. La Merkel, infatti, aveva dirottato i voti su Smirme e questa, tra i paesi dell’Unione Europea, in effetti prese più voti. Noi ribaltammo l’esito grazie al rapporto da noi lungamente coltivato con l’America Latina. Abbiamo potuto accertare che l’ago della bilancia a favore di Milano fu spostato grazie ai voti di 29 Paesi su 30 dell’area latinoamericana.
Un tuo grande successo personale, non c’è dubbio. Ti sei avvalso della preparazione che negli anni avevi maturato nella vita politica e nelle stituzioni. Parlamentare, sottosegretario, dirigente di partito… insomma, un curriculum invidiabile. Ecco, lasciami fare allora una domanda a chiusura di questa nostra conversazione, forse dettata da una affinità di pensiero e quindi di sensibilità, per cui azzerderei una tua battuta finanche prevedibile: cosa pensi della classe politica attuale?
Magari ti deludo, ma avendo fatto tutto quello che hai voluto amabilmente ricordare, mi picco di non dare nessun giudizio. Penso tuttavia che sia più avanti la società civile che i partiti. Ai nostri tempi, al contrario, erano i partiti che guidavano i processi e stavano più avanti.