Da Genova giunge una lezione di pietosa compostezza. Il silenzio è divenuto parte di quell’innalzamento verso Dio di ciò che il cardinal Bagnasco ha definito “ un’onda di preghiera”. Eppure, sembrava che tutto fosse, invece, sovrastato solo da scambi di accuse reciproche, da una polemica politica senza esclusione di colpi. Avviate già prima che la polvere del crollo del ponte Morandi finisse di depositarsi sui corpi martoriati di oltre 40 persone.
Questa gente del Nord, discreta, operosa, colta, per alcune vicende ricorda l’atavica capacità di sopportazione dei napoletani, tante sono le sciagure naturali che la colpiscono periodicamente nella loro città e nelle sue immediate vicinanze.
Da questa gente viene un insegnamento di cui è necessario fare tesoro, davvero, al di fuori di ogni retorica. Crediamo nella stessa certezza del cardinale Bagnasco: Genova si rialzerà e il suo popolo potrà “ costruire ponti nuovi e camminare insieme”.
I genovesi, come i napoletani, come tutti gli italiani, sanno però che il fondamento delle loro questioni irrisolte affonda in una lunga storia, non sempre fatta di cose chiare e raccontabili. Le responsabilità sono spesso obnubilate. Finisce per mancare ogni volta una porzione di autocritica. Limitata l’analisi oggettiva dei fatti e delle vicende che perpetuano, lasciano pesanti scie di lacrime e di sangue.
Come nel resto d’Italia, riconosciamolo tutti noi, le questioni irrisolte affondano pure nel perverso rapporto istauratosi tra l’inanità di una classe dirigente debole e le pretese individualistiche di troppi. Il degrado ambientale, così come quello sociale ed economico, dunque, ha tante madri e tanti padri. A partire da noi, singoli cittadini.
Anche dall’assenza di molte delle bare compassionevolmente composte è giunto un messaggio che obbliga a meditare. Si tratta di quelle i cui parenti hanno voluto far ricevere l’ultimo omaggio in un contesto più familiare e di vicinanza, anche per esprimere così uno sdegno, una rabbia repressa, la cui forza non ha bisogno di grida ed improperi. Forse, per questo è più possente e ammonitrice.
Resta un ponte lacerato.
Tra i suoi grigi detriti , ancora si agita un gruppo di donne ed uomini che dimostrano come questo Paese non si debba considerare ancora perduto del tutto.
Vigili del fuoco, forze dell’ordine, uomini della Protezione civile e della Croce Rossa, giorno e notte sulle ripe del fiume Polcevera per un senso di solidarietà e di dovere straordinari. Pur sapendo, come accaduto dal Belice in poi, che il grazie per loro diventerà sempre più rarefatto e finirà per restare una flebile eco.
Incalza , intanto, la doverosa necessità richiamata dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di “ un accertamento rigoroso delle responsabilità”, assieme alla necessità che il Paese sia unito perché ciò “ rende più forte l’accertamento della verità che va perseguita con rigore”.
Da sempre sono convinto che questo accertamento debba essere avviato sulla base della più ampia conoscenza possibile.
L’esperienza di tante vicende del passato ci dice che, dopo il primo furore e l’espressione delle buone intenzione, molto si perde per strada: compromessi, costrizione dell’opportunità, deviazioni, depistaggi. Dovremo, quindi, armarci di santa pazienza sperando in una sollecita definizione di colpe ed omissioni.
Intanto, anche alla luce delle polemiche delle ultime ore, appare chiaro che, con il ponte Morandi, è caduto molto altro. E’ su questo che dobbiamo cominciare a ragionare. Al di là del fatto che le responsabilità “ ultime” di un tale disastro finiranno per avere precisi nomi e cognomi. Dobbiamo ragionarci perché esiste la possibilità concreta per provare, almeno, ad ottenere dei cambiamenti, delle rettifiche, delle modifiche.
Non è crollata, infatti, un’Italia indistinta ed imprecisata come molti commentatori vogliono raccontarci. Metodo comodo per scrivere aulici editoriali e tenersi ben distanti da quanto si propone come scomodo da indagare.
Tra i resti precipitati dei 210 metri della luce principale del ponte, dobbiamo raccogliere, infatti, quelli di una cultura politica ed economica insinuatasi fino nelle nostra midolla. Accreditata da slogan miracolistici, non veritieri, perché spesso basati su pure ipotesi ideologiche. Oggi ne stiamo pagando grosse conseguenze.
Mi riferisco a quelle teorie di pensiero secondo cui “ privato è bello” e risolutore di tutti i mali. Su quanto è stato costruito un vero e proprio altare del “ liberismo” più sfrenato abbiamo alienato parecchio del patrimonio nazionale. Senza per questo aver ripianato il debito pubblico ed evitato di assistere a gravi incidenti per quanto riguarda, nel campo dei trasporti, la viabilità stradale e ferroviaria. Neppure possiamo dire di ritrovarci con servizi più efficienti e meno costosi . Anche altre aree vitali, cui è stata applicata la pratica delle privatizzazioni, possono portarci alle stesse riflessioni.
La logica del profitto a favore di pochi interessi, visto che le privatizzazioni non sempre sono state accompagnate da autentiche liberalizzazioni, è ovviamente preminente rispetto a tutto il resto. Ciò non mette il Paese nelle condizioni di svilupparsi come sarebbe necessario in materia di infrastrutture, reti e servizi.
Questo vale proprio per quei settori il cui vero profitto è dato dalle prestazioni offerte ai cittadini ed alle imprese che assicurano la tenuta dell’economia italiana. Eppure, c’è chi ancora parla di altre svendite destinate ad interessare quote di Poste, Enel, Finmeccanica, Eni.
Beppe Grillo, che guarda alla polemica momentanea con il mondo dell’informazione, non ha neppure tutti i torti, si avventura in una proposta di privatizzazione della Rai che sarebbe, per me, ferale. Forse la verve polemica non lo aiuta a mantenersi con le idee chiare e distinte.
Evidentemente, allora, è giunto il momento di intraprendere un’altra strada. Una in grado di farci sfuggire alla logica del liberismo senza regole. Così come a quella che, all’opposto, ci vorrebbe far tornare al vecchio statalismo il cui progressivo degrado ha creato le basi culturali e politiche per giustificare la situazione in cui ci troviamo oggi.
La via non può che essere quella di una nuova dimensione comunitaria della gestione del patrimonio pubblico degli italiani.
Molti economisti di estrazione cattolica democratica, è forse un caso?, da tempo insistono sulla necessità che si dia vita alla cosiddetta “ economia Civile” in grado di consentire la creazione di un ambito, più ambiti, anche d’impresa, in cui il pubblico, i privati e la società civile organizzata possano trovare, insieme, occasioni di cooperazione fattuale.
A Genova, è caduta poi la pretesa di quanto non vogliono assumersi la responsabilità del proprio passato.
Matteo Salvini ha giustamente addebitato molte omissioni ai governanti di ieri, anche per quanto riguarda il ponte del capoluogo ligure. Bene.
The Economist di due giorni orsono ricorda che, già nel 1999, uno studio ha rilevato come circa il 30% dei ponti stradali in Europa presentava un qualche tipo di difetto, in particolare, la corrosione del loro rinforzo in acciaio o dei cavi precompressi. Può essere il caso di Genova?
Allora è il caso che il vice presidente Salvini , puntando il dito sul passato, ricordi come dal 1999, anno dello studio sopra citato, si sono succeduti al ministero dei trasporti e delle infrastrutture suoi alleati: Pietro Lunardi 2001/2006, Altero Matteoli 2008/2011, Maurizio Lupi 2013/2015 ( anche se Lupi aveva traslocato con una maggioranza che La lega contrastava). Non sono pochi, mi pare, 10 anni di responsabilità di gestione su 19.
Altro crollo da segnalare è quello della visione ascientifica che sembra si sia impadronita di molti italiani. Dalle credenze sugli Ufo, ai no vax. Basata su sentimenti esclusivamente di rabbia, dietrologa, in base alle quali dappertutto ci sono complotti, corruzione, colpevoli da esporre al pubblico ludibrio. Non intendo proprio dire che l’Italia non abbia bisogno di pulizia: no, ne serve tanta di pulizia.
E’ necessario, però, che nasca una vera consapevolezza laica che i problemi si affrontano e si risolvono sulla base di analisi, di lunghi studi, di pareri tecnici validi e non dando corso a reazioni istintive. Quando queste sono, poi, espresse da una larga parte della popolazioni è necessario rifletterci e pensarci adeguatamente. Sapendo, però, che il tutto deve essere portato ad una sintesi e reso operativo da una decisione politica,non affidabile, certo, solo a consultazioni digitali tra chi non ha competenze adeguate.
Finisco. Un’altra brutta fine, ammettiamolo finalmente dopo anni e anni di battaglie politiche condotte con il cuore, da ambo le parti, è quella che riguarda la storia della destra in grado di rappresentare nei fatti, solo sulla base di una dichiarazione stentorea, un qualcosa di diverso dalla sinistra. E viceversa. Lo ripeto: viceversa.
Eppure, destra e sinistra sono cose diverse. La loro distinzione esiste ed esisterà sempre.
Prima che indicare la collocazione dello scranno su cui si siede in Parlamento, esse rappresentano due diversi modi di pensare. Ciascuna propone una opposta scala di priorità e deriva da un differente modo di concepire la vita e la gestione della cosa pubblica.
La verità è che il nostro sistema elettorale ha reso possibile che apparenti scontri, confronti, dialettiche, riescano a sostituire un fatto sostanziale: siamo di fronte a due realtà etero guidate da ben più forti interessi. Purtroppo, questi interessi sono asociali, amorali e della politica italiana, come dei principali bisogni del popolo italiano, loro non tengono molto in cale.
Di fronte a tutto ciò è necessario cambiare. Dopo il 4 marzo, siamo stati proiettati in una dimensione nuova. Abbiamo a che fare anche con nuovi interlocutori. Ci dobbiamo dare da fare.
Forse se lo aspettano anche gli innocenti inopinatamente morti a Genova. Ci ricordano: Nil difficile volenti.