L’introduzione al libro, recentemente edito da “Il Mulino”, consente di istituire una immediata correlazione tra le sorgenti del pensiero cristiano democratico, la forza propulsiva del messaggio di Papa Francesco e la prospettiva di un nuovo popolarismo. L’autore è fondatore e presidente dell’Associazione “Agire politicamente”.
«Viviamo in un’epoca di transizione»: l’affermazione, ripetuta già da alcuni decenni in diverse sedi e da più parti, può essere intesa in vari modi ma prevalentemente sta a indicare che, mentre si è chiusa una lunga e definita stagione, non ancora se ne è aperta un’altra. Sicché, saremmo in un momento di passaggio, di transitus, consapevoli della provenienza e incerti sulla destinazione.
Già negli anni Sessanta del secolo scorso, la letteratura sociologica prima, e filosofica poi, ha cercato di dare un nome a questa fase transitiva. Così, ad esempio, si è parlato di “società postindustriale” e di “condizione postmoderna”, termini nei quali il prefisso “post” indica, certo, una successione temporale ma anche una discontinuità e una distanza. Ma, soprattutto, rivela il disagio di definire autonomamente la nuova epoca che, perciò, viene nominata in relazione alla precedente. Inoltre, va rilevato che questa classificazione risponde al tentativo (o tentazione?) di dare alla storia una definita periodizzazione. Così, dovremmo ritenere che, finita la transizione, inizierà una nuova epoca. Ma, a parte il dibattito in corso anche in sede politica se questo passaggio sia finito o no, il rischio di una tale impostazione è di considerare questa fase transitiva come un periodo secondario, intermedio, riferito alla stagione passata o preludio di una stagione futura, mentre si tratta di assumerne i caratteri propri come opportunità storiche irripetibili, toccate in sorte alle nostre generazioni, come segni del nostro tempo. Perciò, è qui proposta la transizione come fattore formale del cambiamento, capace di evocare le figure mutevoli della vita e la scena passeggera del mondo.
La transizione indica la provvisorietà e la precaria condizione degli assetti sociali, l’incompiutezza della fatica umana, il non appagamento per i “detti” e i “fatti” ma, soprattutto, è memoria del limite nel quale nasce e si svolge la vicenda umana: «Oggi non viviamo soltanto un’epoca di cambiamenti ma un vero e proprio cambiamento d’epoca, segnalato da una complessiva crisi antropologica e “socio-ambientale”».
Pur indicando, prevalentemente, la dimensione diacronica dei fatti e consegnandoci una visione episodica e frammentaria del tempo, la transizione non è una categoria (solo) temporale ma (anche) culturale. Perciò, investe la tavola dei valori e i sistemi di significato, dei quali tende a scardinare la certezza ultimativa. Ma aggredisce anche le identità definite, le strutture stabilite, i progetti che promettono di durare. Accorcia le appartenenze e le memorie, mentre dilata le incertezze e le attese.
Pertanto, la transizione può costituire un paradigma culturale al quale ricondurre tutto l’agire umano, accogliendo la suggestione del transitivo. E la politica, che è la più fragile delle attività umane, può assumere la transizione come dispositivo abituale del proprio agire, riconoscendo la natura necessaria, eppure circoscritta, delle sue azioni, adottando il limite come misura del possibile e sofferenza per l’impossibile.
Mediare l’impossibile verso il possibile, la totalità dell’intenzione nella parzialità dell’azione, l’assoluto del desiderio nel relativo dei bisogni, costituisce la virtù politica del cattolicesimo democratico, movimento che, dalla verità cristiana dell’incarnazione, desume il modello di declinazione della fede nella storia, della verità divina nelle cose umane, dell’assoluto dei valori nel relativo dei fatti.
Così, la relatività, condizione finita píù che definita del pensare e dell’agire, rappresenta la dotazione potenziale di opportunità della politica. E la laicità non è che consapevolezza e responsabilità del relativo che segna la vicenda umana e l’apre a una più alta speranza.
Anche le pagine che seguono sono poste sotto il segno del relativo, proprio del sapere problematico, e del limite, come soglia di consapevole ulteríorità del pensiero. Nel 2014, con il titolo Democratici perché cattolici, ho pubblicato un libro sul cattolicesimo democratico come “cultura della mediazione”. Qui ho ripreso quei testi per rielaborarli nel confronto con le inedite parole della fede, germi di un mondo nuovo, che Jorge Mario Bergoglio, oggi papa Francesco, con assidua premura pastorale, eleva sull’attuale inquieta stagione dell’umanità, in continuità progressiva, di pensiero e di vita, dagli inizi della sua professione religiosa fino ad oggi.
L’intento è di stabilire una correlazione tra l’attitudine moderna del cattolicesimo democratico e l’antropologia teologica di papa Francesco, interprete critico ma cordiale della modernità; di rilevare la trama dottrinale sottesa al suo ministero sociale e proporne un’iniziale declinazione politica, verificando l’ipotesi che, come per il cattolicesimo democratico, la mediazione, così, per Bergoglio, la dialettica compositiva delle opposizioni polari, costituiscano la “ragione ermeneutica”, congiuntiva e risolutiva delle contraddizioni che abitano la realtà e alimentano la “tensione politica” del mondo.
Sono anche le categorie di elaborazione del “nuovo popolarismo”, che íl libro propone, come comprensione politica del cristianesimo popolare e tracciato di un nuovo umanesimo politico, ispirato alla Teologia del popolo, cara a papa Francesco.