DE GASPERI E DONATI DI FRONTE AL REGIME FASCISTA. LA RICOSTRUZIONE STORICA DI SANGIORGI.

“Per avendo entrambi la stessa fede religiosa e politica De Gasperi e Donati non si prendevano: il primo era razionale e distaccato, portato alla mediazione, il secondo era emotivo e passionale, portato allo scontro. In passato avevano già polemizzato più volte, anche in tema di legge elettorale. Donati fu costretto all’esilio partendo improvvisamente in treno da Roma verso la Francia la sera di venerdì 12 giugno 1925”. Per gentile concessione dell’autore – amico de “Il Domani d’Italia” – riportiamo di seguito uno stralcio del capitolo V (Le vite parallele. De Gasperi e Giuseppe Donati) del libro De Gasperi, uno studio. La politica, la fede, gli affetti familiari, Rubbettino, 2014.

In stagioni diverse altri rapporti controversi hanno segnato la vita di De Gasperi. Agli inizi del fascismo lo scontro più doloroso per i suoi risvolti politici e umani fu quello con Giuseppe Donati, il fondatore e direttore del Popolo. Il 18 gennaio 1925 i popolari celebrano a Roma il sesto anniversario della nascita del partito. Sturzo è già in esilio. I fascisti si sono impadroniti con la violenza del Paese, c’è stato l’Aventino, ancora per pochissimo si può parlare di un residuo barlume di libertà. Quel 18 gennaio viene inaugurata la nuova tipografia del Popolo, frutto di grandi sacrifici economici e di grandi speranze politiche. “Donati – racconta Spataro – era raggiante. Aveva a sua disposizione uno strumento più efficace per combattere la dittatura e sperava, nonostante il nuovo giro di vite imposto quindici giorni prima da Mussolini, che l’arma del giornale sarebbe stata valida; lo attendeva invece di lì a qualche mese l’esilio”. Quindici giorni prima, il 3 gennaio, con un discorso alla Camera Mussolini aveva dato minacciosamente avvio alla nuova “era” fascista.

Il Popolo di Donati era un baluardo contro questa deriva. Tra l’agosto e il settembre 1924 aveva denunciato le centinaia di aggressioni compiute contro sedi di partiti e di associazioni, le decine di ferimenti e di omicidi politici. Era stato in prima linea nelle inchieste per l’assassinio di Matteotti e di don Minzoni. Nelle edicole dal cinque aprile 1923, aveva raggiunto una tiratura media di trenta mila copie, era un giornale autorevole e temuto, per questo continuamente sotto mira della polizia con censure e sequestri. Si arrivò a sequestrarlo tre volte di seguito in ventiquattro ore. Il primo luglio 1924, ad Aventino appena iniziato il giornale aveva pubblicato un’intervista a Filippo Turati nella quale si immaginava una sorta di centro sinistra ante litteram, un’alleanza tra popolari e socialisti subito contestata da Civiltà Cattolica nel mese di agosto – “una simile alleanza non sarebbe né conveniente, né opportuna, né lecita” – e da Pio XI in persona il 9 settembre in un discorso agli universitari cattolici della Fuci. Una specie di nuovo non expedit.

Il 16 luglio 1924 De Gasperi, segretario del Partito popolare, con un discorso ampiamente riportato dal Popolo di Donati aveva dato il suo avallo a questa prospettiva, e così aveva fatto don Sturzo dall’esilio. De Gasperi aveva ipotizzato anche un patto di desistenza elettorale tra popolari e socialisti e gli altri partiti antifascisti, proposta che gli aveva ulteriormente attirato l’ira di Mussolini. L’anno precedente Sturzo, al quarto congresso nazionale del Partito popolare, pur contrapponendo il popolarismo al socialismo e al comunismo aveva affermato che essere alternativi “dal punto di vista teorico ed etico, politico ed economico, non vuol dire che parecchi postulati sociali non possono essere comuni a vari partiti e quindi a noi e ai socialisti, come il postulato delle otto ore di lavoro, dell’istituzione del Consiglio superiore del lavoro, quello delle assicurazioni sociali e la tutela delle donne e dei fanciulli nel lavoro”. Anche Toniolo, quando nel 1897 si era svolto a Zurigo il primo congresso internazionale per la protezione operaia aveva commentato: “marciare separati, pugnare uniti”. Dunque è lontana nel tempo l’origine della definizione della Democrazia Cristiana come partito di centro orientato a sinistra. Il futuro ha un cuore antico.

Per avendo entrambi la stessa fede religiosa e politica De Gasperi e Donati non si prendevano: il primo era razionale e distaccato, portato alla mediazione, il secondo era emotivo e passionale, portato allo scontro. In passato avevano già polemizzato più volte, anche in tema di legge elettorale. Donati fu costretto all’esilio partendo improvvisamente in treno da Roma verso la Francia la sera di venerdì 12 giugno 1925. La partenza avvenne in condizioni di estrema tensione. In quei giorni stava per uscire la sentenza del processo al generale Emilio De Bono, se egli fosse o meno coinvolto nell’assassinio di Giacomo Matteotti. De Bono, uno dei quadrunviri della marcia su Roma, voleva dire a quei tempi Mussolini ed era stato chiamato in causa da un’inchiesta del Popolo.

I fascisti sapevano che sarebbe stato assolto e minacciavano la più violenta delle ritorsioni. Perciò l’11 giugno De Gasperi e altri dirigenti del Partito popolare, Spataro, Giovanni Gronchi, Antonio Anile incontrarono Donati e lo costrinsero ad allontanarsi da Roma: per salvargli la vita, sperando al tempo stesso di allentare la spaventosa pressione squadrista contro il partito e contro il giornale. Scrisse Spataro di quelle drammatiche ore: “Era in gioco la vita di un uomo, di un padre di famiglia, che per i suoi ideali aveva assunto una coraggiosa posizione di lotta e si trovava in quel momento esposto a un grave pericolo.” Donati accettò di malavoglia. Non voleva che la sua partenza apparisse una fuga. Prese il treno accompagnato dal segretario, Guido Armando Grimaldi, che ricordò così quel viaggio: “Torino, Susa, il treno sale, sbuffa. La fresca brezza delle montagne ci dà il senso fisico dell’aria libera. E i nostri cari? Spingevamo lo sguardo lungo le scarpate come per ritrovarli; non potevamo ormai pensare a Roma senza figurarcela in un fondo valle”. Alla frontiera Donati viene fermato dalla polizia fascista, interrogato, maltrattato, la notizia della sua partenza era diventata di dominio pubblico, lui se ne lamenta con dichiarazioni alla stampa, dice polemicamente di sentirsi abbandonato dal partito che l’aveva costretto a partire. Non è così, era il regime fascista a tradire le assicurazioni inizialmente fornite nei confronti del direttore del Popolo, ma in quei giorni convulsi c’è una difficoltà di rapporti diretti tra lui e Roma e quindi una difficoltà di comprensione degli avvenimenti.

Le prime settimane del distacco di Donati sono una pagina tormentata dei rapporti al vertice del Partito popolare. Il 20 giugno De Gasperi gli scrive una lettera amareggiata: “ti confesso che fui male impressionato dalle tue dichiarazioni comparse sul Corriere della Sera…. si ebbe la massima cura di salvaguardare la dignità e la figura morale delle tua persona… Ciò che mi pare per ora da escludersi è il ritorno ostentativo alla guida del giornale…” Donati, spirito polemico e impetuoso, poco incline alla prudenza di De Gasperi gli risponde per le rime: “…affermo che non intendo che nel frattempo venga in alcun modo modificato il mio diritto nei confronti della direzione del Popolo…ti prego di farmi avere un cenno di conferma, aggiungendo gli eventuali chiarimenti.” Il chiarimento che riceve da De Gasperi è altrettanto spigoloso: “Trovo superflua la tua preoccupazione circa la direzione del giornale. Il consiglio d’amministrazione ti ha concesso un congedo temporaneo. Il resto sono insinuazioni maligne e prive di fondamento…” Risponde ancora Donati: “Non vi domando nulla per me. Ti raccomando la mia famiglia e questo soltanto”. Il carteggio, conservato all’Istituto Sturzo, mostra il coraggio, la sofferenza, i conflitti fra i protagonisti di quelle drammatiche ore.

In seguito, entrambi si appellarono a Sturzo per dimostrare le rispettive ragioni e tornarono anche a scriversi direttamente, ma l’intesa umana fra queste due personalità dai temperamenti così diversi restò difficile. Nonostante l’esilio del suo direttore il giornale venne egualmente chiuso d’imperio. L’atto di morte fu redatto di persona dal segretario del partito fascista Roberto Farinacci: “Il Popolo, di cui fu anima dannata il Donati, bieca figura di delinquente, accusatore menzognero quanto implacabile del generale Del Bono e del Duce, non ha diritto di sopravvivere al fallito tentativo. Quindi si proceda senza esitare: energicamente, immediatamente, fascisticamente”. L’ultimo numero del giornale uscì il 6 novembre 1925, poi calò il silenzio fino alla ripresa clandestina dopo l’otto settembre 1943. Donati morì a Parigi il 16 agosto 1931 in condizioni di estrema miseria, di solitudine, lontano dalla famiglia, lontano dal suo Paese eppure battagliero fino all’ultimo. Aveva soltanto 42 anni. A lui si addice il verso di Anacreonte: “Qui giace Timocrito, valoroso in guerra; Marte risparmia i vili, non gli eroi”. Sulle sue spalle è stata posta la croce forse più pesante di tutte quelle sopportate dall’antifascismo cattolico.“Qui nunquam quievit, quiescit”: così gli resero omaggio i fuoriusciti italiani a Parigi, Filippo Turati, Claudio Treves, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Francesco Luigi Ferrari e tanti altri con loro.

Se De Gasperi è l’indiscusso leader politico, Donati è il simbolo di un giornalismo che non si piega davanti alle intimidazioni ma reagisce e combatte, sacrificando all’ideale della libertà ogni sicurezza e convenienza. Oggi è più comodo in Italia fare gli oppositori del regime. Durante il fascismo si pagava con la vita. Sotto la guida del suo direttore Il Popolo era diventato un giornale celebre per le inchieste sui retroscena delittuosi del potere fascista. “Donati – riconobbe un osservatore come Piero Gobetti – ha portato uno spirito nuovo nelle battaglie cattoliche, ha aperto gli occhi ai giovani, ha demolito idee e posizioni fatte, ha abituato le reclute dell’Azione Cattolica a un’atmosfera di democrazia moderna”. Se non il primo, è stato certamente uno dei primi a teorizzare la necessità che l’antifascismo si trasformasse in resistenza organizzata. In un articolo scritto a Parigi nel maggio 1926, Donati incita alla lotta gli oppositori del regime fascista perché solo “da tali resistenze invitte scaturiscono le resurrezioni civili dei popoli e le grandi riparazioni della storia”.

Per un destino singolare, è come se l’incomprensione tra De Gasperi e Donati si fosse estesa alle loro famiglie. Entrambi hanno avuto una figlia monaca, suor Lucia e suor Severa, che hanno anche trascorso diversi anni in due conventi della stessa regione, la Liguria, ma non si sono mai incontrate. “Io scelsi un ordine modesto, quello delle figlie di Maria Ausiliatrice di don Bosco – dice suor Severa – mentre Lucia apparteneva a quello dell’Assunzione. Tra noi non c’è stato nessun urto, ma anche nessun contatto. Forse è semplicemente mancata l’opportunità perché vivevamo in ambienti diversi, ma questo non era motivo di contrasto né io ne ho mai avuto”. Non si sono conosciute neppure altre due figlie, Cecilia De Gasperi e Grazia Donati, ed è incredibile invece quanto i loro ricordi siano vicini anche nei particolari minuti quando descrivono la vita e la povertà delle loro famiglie negli anni della persecuzione fascista dei genitori.

Cecilia ha raccontato della madre che aveva imparato ad andare in bicicletta e arrivava a piazza San Giovanni per comprare le aringhe salate, dalle quali grattava il sale per condire i piatti. Le aringhe. A casa Donati avveniva qualcosa di simile. Raccontò una volta Grazia: “Nel novembre 1939 la mamma mi mandò a vendere un libro prezioso che ancora le restava. Ne ricavai dieci lire e siccome era il suo compleanno, tornando a casa con 60 centesimi comprai un’aringa affumicata di cui era ghiotta”. Le mogli di De Gasperi e Donati, Francesca e Vidya, facevano la spesa negli stessi mercati di Roma e pativano le stesse sofferenze nel mandare avanti le loro famiglie. Le quattro ragazze De Gasperi e le tre ragazze Donati avevano un comune problema con le scuole pubbliche perché erano figlie di sovversivi. Quante cose dunque avrebbe potuto dirsi Francesca e Vidya solidarizzando tra loro, magari ricordando i tempi del Partito popolare e le amicizie e le vicende comuni di quel passato. Anche loro invece non si frequentarono mai, né durante il fascismo né dopo.

La freddezza di questi mancati rapporti è stata come una zona d’ombra nelle esistenze tanto luminose di tali personaggi. Abbiamo appena ascoltato le parole di suor Severa: non c’è stato nulla di intenzionale, ma le cose sono andate così. Si può rimuoverla una simile zona d’ombra? A suo modo, per le ricerche e i contatti che ha reso necessari ne è divenuto occasione questo studio su De Gasperi. Così, tanti e tanti anni dopo gli antichi avvenimenti dei quali parliamo è avvenuto un fatto inaspettato. La mattina di venerdì 11 maggio 2012, una bella mattina di sole, Maria Romana De Gasperi ha varcato la soglia di un edificio alla periferia di Roma, un edificio che ospita l’Istituto di San Giovanni Bosco delle figlie di Maria Ausiliatrice. È entrata, ha preso un piccolo ascensore ed è salita al primo piano. Appena fuori davanti a lei, ad aspettarla, c’era suor Severa Donati.

Eccole di fronte suor Severa, classe 1920, e Maria Romana, classe 1923, le figlie di due uomini leggendari del cattolicesimo politico italiano, campioni della lotta antifascista scomparsi uno nel 1931 e l’altro nel 1954. Un’aria di storia investe l’incontro. Il tempo ha dilatato con pazienza i suoi limiti nell’attesa di mettere la parola fine a una vicenda rimasta tanto a lungo aperta. La De Gasperi è come sempre esuberante ed è appena tornata da Bruxelles dove ha partecipato a una cerimonia. La Donati ha lo stesso sguardo penetrante del padre: occhi neri di falco, così un cronista lo aveva chiamato negli anni delle battaglie antifasciste. Pochi passi e le due donne entrano in un salottino. Non si erano mai viste prima, non si erano mai strette la mano, non si erano mai guardate negli occhi. Adesso siedono vicine a scambiare i loro ricordi.

“Finalmente ci conosciamo”. “Certo potevamo farlo prima”. Le parole si sciolgono in un sorriso e la luce di una amicizia immediata dilegua le ombre del passato, incomprensioni mai dichiarate, domande rimaste prive di risposta, sentimenti tenuti nascosti sotto la coltre del tempo. Quell’addio drammatico tra De Gasperi e Donati del giugno 1925 così carico di sofferenza, di tensione, di conflitti raggiunge idealmente, in questo ritrovarsi delle figlie, la sua composizione. Pace è fatta, una pace liberatoria, il riconoscimento dovuto al direttore del Popolo e alle sue sofferenze, che si estesero anch’esse alla sua famiglia.

È suor Severa a raccontarlo a Maria Romana ricostruendo i loro anni giovanili: “Quando tornammo a Roma le autorità di polizia mi obbligarono ad andare a scuola al Tasso, dove c’erano anche i figli di Mussolini. Venivo umiliata perché mio padre era un sovversivo. Una volta mi ribellai e dissi che quando sarei diventata grande lo avrei vendicato. Dal giorno dopo mi fecero seguire a vista da una guardia anche se ero soltanto una ragazza”. Probabilmente è un caso unico che una futura suora sia stata trattata come un pericoloso estremista. “Ci rivedremo lassù” è il commiato ineffabile di suor Severa al termine dell’incontro, mentre una sorte sempre restia all’eccessiva retorica e alla troppa solennità anche stavolta infila una nota lieve in questo quadro di commozione. L’istituto religioso dove la figlia di Donati sta trascorrendo i suoi giorni di riposo e dove avviene l’incontro con la figlia di De Gasperi non si trova lungo una strada qualsiasi ma in una lunga via che ha un nome davvero particolare: via Palmiro Togliatti. Anche lui non è voluto mancare.

 

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