Lontani dal sacro, in questo Occidente spoglio di religiosità, ormai siamo ignari di quanto gli antichi Romani fossero attenti al culto dei loro dèi.
La vita per loro era un continuo disbrigo di riti propiziatori, di cerimonie e sacrifici, anche brutali. Nel quotidiano si poteva inciampare sull’uscio di casa e perciò dedurre, di prima mattina, l’avversità di quel giorno. Gli eserciti vincevano o perdevano a misura della “pietas” dei generali, e quindi dei loro soldati.
Quando Annibale valicò con gli elefanti le Alpi, iniziò una guerra costellata di molte sconfitte per Roma. Prima della clamorosa disfatta di Canne, tre luoghi di battaglie – i luoghi delle famose tre “T”: Ticino, Trebbia, Trasimeno – avevano decretato sul campo la superiorità del comandante cartaginese.
Al console Flaminio, deceduto nell’ardita imboscata punica a Borghetto di Tuoro sul Trasimeno, l’Urbe attribuì la colpa di quell’ecatombe: gli dèi lo avevano punito per la sua scarsa devozione. I Romani corsero dunque ai ripari. Venne decisa la costruzione di due nuovi templi sul Campidoglio, uno dedicato alla Venere di Erice, l’altro a Mens, fino ad allora divinità sconosciuta o trascurata.
La scelta, ci dicono gli storici, fu opera del dittatore Quinto Fabio Massimo (il Temporeggiatore). Soprattutto il tempio di Mens fa riflettere a distanza di secoli. Cosa significava? Nello sbandamento provocato dai rovesci bellici, la Città aveva bisogno di recuperare la forza del discernimento e della intelligenza pratica. Per questo occorreva affidarsi a Mens, il dio che si voleva intento alla salvaguardia di queste decisive facoltà umane.
Con un gesto di autentica religiosità, il dittatore aveva pertanto evocato il ritorno all’autentica razionalità. Solo questo poteva salvare Roma, solo questo, a lungo andare, l’avrebbe in effetti salvata. Quinto Fabio Massimo, senza perdere la testa, riuscì a dominare gli eventi e a piegare la lucida intraprendenza guerriera di Annibale.
Qual è l’insegnamento, anche per noi cristiani o post cristiani del secondo millennio? Ecco, grazie alla fiducia nel connubio (tutto pagano) di fede e ragione, Quinto Fabio Massimo spianò la strada al riscatto dell’Urbe e gettò le basi per il trionfo finale di Scipione a Zama. Senza Mens non ce l’avrebbe fatta. Una lezione per l’oggi?
P.S. Ognuno può liberamente trasfigurare Flaminio nel ritratto di un console contemporaneo.