La storia politica italiana del dopoguerra è spesso narrata attraverso contrapposizioni nette, quasi caricaturali. Tra queste, nessuna è forse più emblematica e culturalmente “ferita” di quella tra Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti. Ma siamo sicuri che la dicotomia tra lo statista concreto e il professore utopico, tra il politico del compromesso e l’ideologo puro, renda giustizia alla complessità del loro rapporto e, soprattutto, alla loro comune meta?
Il saggio di Roberto Di Giovan Paolo – proposto qui in allegato – si propone di superare tale lettura pamphlettistica, rileggendo il cammino dei due leader non come uno scontro, ma come un dialogo a distanza tra due “Alter Ego” della nascente Repubblica. Figure che, pur partendo da retroterra generazionali e culturali differenti – l’uno erede della tradizione popolare prefascista, l’altro forgiato nel crogiuolo della Resistenza – condivisero i momenti fondativi della nazione: dalla Costituente alle grandi riforme, fino alla cruciale scelta atlantica.
La divergenza non fu sul fine – la ricostruzione morale e materiale di un’Italia uscita dall’abisso della dittatura – ma sul metodo e sulla visione. Da un lato, De Gasperi, con il suo realismo da “Cancelliere”, vedeva il partito come strumento per la conquista del consenso e il Parlamento come luogo sovrano della discussione. Dall’altro, Dossetti, con la sua idea di una “reformatio” della società, concepiva il partito come laboratorio permanente di elaborazione culturale, un “movimento” capace di contendere l’egemonia ideologica al PCI non solo nelle urne, ma nel cuore del Paese.
L’analisi del loro carteggio e dei documenti programmatici dell’epoca rivela un dialogo profondo, rispettoso, ma irriducibile. Un confronto che si interruppe bruscamente con l’addio di Dossetti alla politica nel 1951, lasciando De Gasperi tragicamente solo al comando, privo del suo “pungolo” critico proprio mentre iniziava la lotta per la sua successione e la burocratizzazione della DC.
Ripercorrere oggi questa dialettica mancata non è un mero esercizio storiografico. Significa interrogarsi su un’eredità perduta: l’idea di una democrazia partecipativa, sorretta da partiti come luoghi di formazione delle élite e di elaborazione corale. Una riflessione cruciale per comprendere la crisi attuale della politica, il crollo dei partiti di massa e il ritorno al comando di élite ristrette, in un’eco preoccupante della storia pre-repubblicana. Forse, al Paese serviva tanto il padre nobile quanto il figlio profetico.