Dibattito | L’attrazione irresistibile del centro: l’ostacolo è il leaderismo dei partiti odierni.

Perché l’appello di Fioroni non convince? Un partito non si costruisce in poche settimane, ma è singolare che si parta da una lista per poi passare al fatto centrale: il partito, appunto.

 

Non deve essere di poco conto l’attrazione che in questa fase politica sta esercitando il centro sul cammino e gli obiettivi di breve periodo di alcune forze politiche, FI, IV e Azione, tese a ridefinire il loro profilo identitario.

Ovviamente ciascuno di esse guarda al centro per motivi diversi, ma la ragione comune è il tentativo di sottrarsi ad una inevitabile incorporazione, per chi come FI sta nella coalizione di centrodestra, pur se Tajani ne sta inventando di tutti i colori per avere una ribalta mediatica quotidiana, riproposta a tutte le ore dalle reti Fininvest, mentre è palese la fatica – in quanto partito assolutamente personale e con una classe dirigente scelta,intuitu personae, ossia uno ad uno da Berlusconi – a riprogrammarsi in un quadro di autentica democrazia interna.

A sinistra il pericolo non è l’incorporazione, ma l’irrilevanza di IV e Azione che tornati divisi rischiano di accreditare, come peraltro sta avvenendo nel dibattito interno che li vede più marginalizzati, la prospettiva di non superare la soglia di sbarramento del 4% alle prossime elezioni europee.

In questo quadro c’è chi in linea con la propria originaria identità e nel solco di un patrimonio di esperienze pregresse, che oggi si vogliono riproporre, sia pure in un visione aderente alle realtà odierne, sta sciupando quel comune filo conduttore che tiene legati ad obiettivi di lungimirante e sostenibile sviluppo del paese, le diverse componenti culturali e di pensiero politico che fanno capo, da una parte, alla valorosa missione di quanti stanno provando a rifondare la DC, che con la segreteria di Totò Cuffaro sembra aver abbandonato la linea del distinti e distanti dalla destra (che peraltro oggi con FdI è maggioritaria nel centrodestra) e dalla sinistra(con un Pd sempre più massimalista e radicale) attestandosi irreversibilmente su posizioni di permanente alleanza con il centrodestra (cosa che ci fa prefigurare anche con riguardo alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo) e, dall’altra, a tutta quell’area del popolarismo che con la segreteria della Schlein si sono trovati nel Pd, spiazzati e stranieri in casa.

Non sono pochi a scommettere che quel cordone ombelicale che ha legato le diverse sfumature di pensiero che si sono articolate all’interno della cornice concettuale e dottrinale espresse da una parte dal popolarismo sturziano e dall’altra da un certa area democristiana più intransigente poco incline a quell’apertura laicista capace di rendere più viva e aderente alle inevitabili evoluzioni della società, ogni scelta politica, vada ricomposto non come ritorno a una ingenua adolescenza politica ma come collante di due direttrici culturali che in questi trent’anni hanno finito per trovare strade diverse, nel centrodestra e nel centrosinistra,seguendo l’onda del bipolarismo.

E quale altro se non questo può essere il momento migliore per cogliere il segnale, che con il disertare le urne di fronte ad un florilegio insoddisfacente di proposte politiche, spesso ingannevoli o effimere, da anni ci manda un elettorato non distratto che attende pazientemente la ricomposizione di questi due filoni culturali, Cristiano-democratico e Popolare, unici a saper rappresentare una politica della mediazione pacata e della sintesi decisionale se non si vuole, ancora una volta, destinare quel vuoto politico alla perenne evanescenza, rendendo immanente questo bipolarismo deleterio.

Il tema vede peraltro commentatori molto più illustri che con pregiati contributi sui media (in particolare sul valoroso giornale-blog Il Domani d’Italia, che in questo momento appare come un prezioso laboratorio di idee e di analisi)discutere da tempo sulla opportunità o meno di una ricomposizione dell’area democristiana.

Proprio su Il Domani d’Italia di qualche giorno fa, a firma di Giorgio Merlo, leggiamo:

“…il Centro e la stessa ‘politica di centro’ nel nostro paese non possono essere disgiunti e separati dalla presenza politica, culturale e programmatica – ancorché decisiva – della cultura cattolico popolare, cattolico democratica e cattolico sociale. E questo non per una civetteria moralistica ma per la semplice ragione che il Centro e la ‘politica di centro’ non possono essere interpretati e declinati da chi storicamente è estraneo, esterno se non addirittura alternativo a quella sensibilità, a quella cultura, a quella prassi e, soprattutto, a quell’indole. E la conferma arriva quotidianamente dalla concreta dialettica politica italiana”.

E Giuseppe Davicino nel suo articolo pubblicato sempre su Il Domani d’Italia di giorni fa, aggiunge:

“Un centro dinamico e riformista necessita anche di una capacità di lettura e di visione dell’attuale fase, con le quali costruire una narrazione in grado di parlare in profondità a un elettorato interessato a capire dove si sta andando, la direzione e il governo dei cambiamenti, e ormai stanco di veder soffocata nella sterile contrapposizione destra-sinistra la discussione sui principali problemi che ci stanno davanti”.

Ad essi fa eco Fioroni, sullo stesso giornale,che così scrive: “L’analisi del “caso Italia” ci porta a convergere con Renzi e con Calenda, senza annacquare con ciò la specificità del nostro popolarismo…”. Dialoghi interessanti ma talvolta singolari, come appare trarsi dalle note di un ennesimo articolo di Merlo del 1 ottobre scorso, ove così si esprime in risposta adesiva a Fioroni: “E, come ha giustamente ricordato Beppe Fioroni nelle conclusioni del convegno romano, i passaggi politici sono sostanzialmente due: e cioè, prima si costruisce la lista di Centro per le prossime elezioni europee con tutti i soggetti, i partiti e i movimenti che rifiutano la prassi e la deriva del “bipolarismo selvaggio” e poi, ma solo in un secondo momento, si gettano la basi per la costruzione definitiva di un partito di Centro”.

Cui segue, a distanza di pochi giorni, oggi (ieri per chi legge, ndr) questo appello di Fioroni: “…Ecco, rimettiamo mano all’aratro. Perché dovrebbe vincere l’incomprensione? Calenda e Renzi, con carismi diversi, possono legittimamente rivendicare un ruolo da protagonisti. Lo sono a pieno titolo, malgrado la separazione recente, perché intercettano meglio di tutti gli umori della pubblica opinione. Non devono soccombere però all’impazienza di fare da soli, tanto da rimanere prigionieri singolarmente della loro stessa solitudine”. Finendo il concetto con una visione progettuale che ha dell’incredibile: “…Anche il centro può rivestirsi dei colori dell’arcobaleno, così dando a tutti, attraverso la molteplicità degli apporti, il modo di riconoscersi nel caleidoscopio di motivazioni e propositi che in fondo la domanda di nuova proposta politica esige”.

L’appello rivolto ai due leader di quello che fu il terzo polo affinché si ricompongano in vista del comune obiettivo di una ruolo politico del centro, non più schiacciato dagli estremismi dei due poli, appare davvero incomprensibile. Di certo nell’appello di Fioroni pesa tutta la perniciosa pregnanza del leaderismo dei partiti odierni. Peggio ancora se questa linea si perseguisse secondo l’intendimento che accomuna Fioroni e Merlo. Pur riconoscendo che un partito non si costruisce in poche settimane, di certo appare assai singolare che si parta da una lista per poi costruire su di essa un partito. Normalmente avviene il contrario e non per un semplice manierismo di facciata ma perché solo sulla base di una proposta progettuale si possono trovare le candidature adatte a rappresentare questa o quella proposta politica del proprio partito.

Un tale groviglio rende ancora più dissonante l’inusuale auspicio mentre auspichiamo da tempo il senso di un recupero di quel virtuoso metodo basato sul confronto politico di ogni questione ora preordinata a scelte tattiche ora a scelte strategiche del partito.

Certo, peculiarità di un altra epoca, ove saldamente il gioco della dialettica interna portava, ora al prevalere dell’una, ora dell’altra tesi in un quadro di assoluto rispetto della collegialità.

Oggi ci si appella ai leader che come ologrammi rifrangenti mostrano profili multiformi, e spesso ingannevoli: mutazioni che servono per tentare di attrarre un elettorato assai liquido e che vuole trovare risposta immediata ed esclusiva ai propri interessi personali, senza guardare all’insieme del paese.

Del resto nella stessa classe politica sempre meno troviamo qualcuno incline a come recuperare il senso di comunità che ogni paese deve orgogliosamente saper curare e custodire. Fa poi un certo effetto, nonostante gli inviti che ci è capitato di rivolgere a Fioroni per un maggior focus sul processo di ricomposizione dell’area democristiana, in stallo da tempo, per ricostruire un partito che ne fosse in qualche modo l’erede politico di quello che seppe essere la Dc, leggere di appelli a leader, che da tempo non si tollerano e che se ne sono detti di tutti i colori, bruciando l’idea credibile di un nuovo centro come asse del sistema.

Mentre appare ancor più lontano da una certa idea di centro il ragionamento di Fioroni che arriva nelle sue conclusioni a scomodare espressioni come “anche il centro può rivestirsi dei colori dell’arcobaleno”, dove non è difficile immaginare quale fine farebbe una formazione ancora ben poco strutturata in confronto alle dinamiche egemoniche, di leader, così ben rodati, nell’idea, assai ingenua, di poter esprimere la migliore sintesi di posizioni variegate e di una multiformità di metodi politici, finendo magari per non essere più nemmeno la foglia di fico con cui spesso si sono paludate certe linee politiche, così nelle coalizioni di centrodestra: l’Udc, ultimo periodo berlusconiano; come in quelle di centrosinistra: i Popolare nel Pd, tenendo ai bordi, pur esibendoli, esponenti politici di altre culture.

Non sarebbe improprio anziché provare a rinverdire quello spirito personalistico che pervade purtroppo l’intero sistema politico, invocare con una proposta politica una visione più uniformante delle forze politiche più affini ad una piattaforma progettuale comune sul lungo periodo, per l’Italia e per l’Europa piuttosto che rivolgersi direttamente a leader che si sono ampiamente dimostrati inadatti per incompatibilità, dissidi personali, metodi, talvolta disinvolti, e per cambiare idea nel giro di pochi giorni (emblematiche le performance che li hanno caratterizzati in questi mesi precedenti con il fallimentare esperimento del terzo polo) per dare una qualche fisionomia credibile ad una autentica idea politica di centro.