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venerdì, 16 Maggio, 2025
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Dibattito | Lavoro, Costituzione, dignità: perché i referendum contano

La nota si discosta nettamente dalla linea editoriale del giornale. L’autore, per parte sua, richiama l’attenzione sulla opportunità offerta dai referendum circa il ripristino di alcune tutele, così come previsto dallo Statuto dei lavoratori.

Sui referendum che investono il Jobs Act, Donat Cattin, anche oggi, non si sarebbe fatto guidare dal pregiudizio ideologico. Che significa? Non son poche le perplessità che il pregevole articolo dell’esimio opinionista, Giorgio Merlo, ci costringe a sollevare intorno alla singolare ed eccentrica tesi che deduciamo dal suo articolo di qualche giorno fa; che cioè Donat Cattin si sarebbe ben guardato di sostenere la posizione abrogazionista posta dai 4 quesiti referendari in materia di lavoro. Sebbene non possa negarsi la pregevolezza di uno stile, nel quale però non si fa fatica a cogliere qualche sottile pregiudizio ideologico, l’autore interviene nell’interessante dibattito con una tesi suggestiva, oltre che divisiva, la cui singolarità appare assai poco conferente con le premesse del suo variegato pensiero.

Ed infatti, nell’articolo dal titolo “L’art.18, tra memoria e propaganda. La lezione dimenticata di Donat-Cattin”, il cui focus è rivolto alle imminenti risposte che la consultazione referendaria, indetta per l’8 e 9 giugno, ci chiama a dare sui cinque quesiti ammessi dalla Consulta, la questione posta da Merlo attiene soprattutto ai quattro quesiti che investono i nuovi aspetti normativi, tra tutele in tema di licenziamento e tipologie contrattuali, introdotte dal Jobs Act.

La riforma, come è noto, fu varata dal governo Renzi con cui vennero riscritte norme essenziali dello Statuto dei lavoratori, a cominciare dall’art.18 sui licenziamenti. Se, da una parte appare legittimo prendere personale posizione sui diversi quesiti in materia di lavoro, oggetto della consultazione referendaria dell’8 e 9  giugno, ove appare chiara la sua contrarietà all’abrogazione, sulla scorta di un ragionamento che prende spunto dalle linee guida che orientavano il pensiero politico e sociale di Donat Cattin, non ci sembrano però convincenti gli argomenti usati dal nostro autore, del quale testualmente ne trascrivo un passaggio essenziale: “Quelli che sono in calendario il prossimo 8-9 giugno rispondono a una precisa finalità politica, teorizzata e ribadita – del resto – quotidianamente dagli stessi promotori. E, nello specifico, dal capo del sindacato rosso della Ccil, Landini, che non perde occasione per dire solennemente che l’unico obiettivo di questa consultazione referendaria è quello di dare un colpo decisivo all’attuale maggioranza di governo”.

Vien da chiedersi come si possa conciliare, in tema di principi basilari del filone culturale cui egli appartiene, un attacco così artificioso e strumentale da parte di chi sottolinea l’appartenenza a quel laboratorio culturale e politico che faceva capo a Donat Cattin, Ministro del lavoro all’inizio degli anni ‘70, succeduto a Giacomo Brodolini, prematuramente scomparso, e con il prof. Gino Giugni, ispiratori dello Statuto, emanato con Legge il 20 maggio 1970, n.300.

Lo Statuto, costituì una pietra miliare che per ben quarantacinque anni disciplinò, immodificato, le garanzie sulla tutela del lavoratore.

Non si comprende pertanto il filo di un ragionamento che lascia trasparire un pretestuoso tentativo teso a delegittimare la ratio di una istanza popolare, dai tanti sottoscrittori, tesa a recuperare quella solida tutela assicurata dallo Statuto del 1970, nella delicata materia del lavoro.

Per contro non si intravede alcuna critica intorno agli effetti nefasti, che un capitalismo selvaggio non fa che accentuare, sia sul versante dell’occupazione, sempre più precaria, che per il consistente aumento dell’impoverimento della classe operaia, causate dalla destrutturazione operata, secondo una logica, eccessivamente garantista, da tempo richiesta dalla Confindustria, a tutela dell’impresa, dal Jobs Act, che, nel falso obiettivo di modernizzare il mondo del lavoro, ha invece comportato un consistente arretramento delle conquiste sociali che avevano assicurato per oltre quarant’anni il fondamentale diritto ad una piena attuazione delle tutele che la Costituzione esige, già a partire dal suo primo articolo (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro..”), come elemento fondante ed identitario del nostro Ordinamento repubblicano.

In questo quadro appare singolare il tentativo di estrapolare dai tanti contesti argomentativi, le affermazioni personali di qualche promotore, all’interno di dichiarazioni rese a sostegno delle ragioni dell’abrogazione delle norme peggiorative, rispetto all’originario Statuto, per accreditare obiettivi che nulla hanno a che fare con le ragioni sociali, giuridiche e politiche del comitato promotore e dei sottoscrittori volte al legittimo ripristino di una efficace e giusta tutela e stabilità del posto di lavoro.

Oltre ad apparire, quantomeno poco leale, verso quei tanti lavoratori che, avvitati nel groviglio di tipologie contrattuali sempre più precarizzanti, si sono ritrovati senza poter costruire un praticabile progetto di vita e di famiglia e talvolta senza lavoro.

Così vale la pena dare uno sguardo specifico ai quattro quesiti in materia di lavoro.

Il primo riguarda i Licenziamenti illegittimi e il contratto a tutele crescenti.

Oggi nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non possono riavere il loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo, anche se così è stato dichiarato da un giudice. L’unico ristoro che gli si riconosce è un risarcimento di un certo numero di mensilità.

L’obiettivo è ovviamente quello di ripristinare la precedente normativa dello Statuto del 1970 con cui il lavoratore otteneva la piena reintegrazione del posto di lavoro in tutti i casi di licenziamento illegittimo.

Il secondo, l’Indennità per licenziamenti nelle piccole imprese.

In caso di licenziamento illegittimo, in presenza di aziende con meno di 15 dipendenti, oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento.

Il quesito tende ad eliminare il tetto massimo delle indennità, da corrispondere al lavoratore, consentendo al giudice di determinare l’importo senza limiti, aumentando l’indennizzo in base alla capacità economica dell’azienda, dei carichi familiari e dell’età del lavoratore coinvolto.

Il terzo, i Contratti a termine.

È una materia che con il pretesto di assicurare maggiore flessibilità si sono introdotte tutta una serie di contratti a scadenza, spesso acausali, ossia senza la necessità di specificare alcuna causa nella proroga e con limiti di proroga non proprio restrittivi, così favorendo un laissez faire senza efficaci controlli. 

Il quarto, la Responsabilità solidale negli appalti.

Con questo quesito si tende a reintrodurre, per una maggior sicurezza dei luoghi di lavoro (ove purtroppo non c’è giorno che non faccia registrare morti nei cantieri o nelle aziende) la responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore,  per gli infortuni sul lavoro derivanti da rischi specifici dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.

Stando alle risultanze dei monitoraggi delle agenzie del lavoro e dei centri studi che le organizzazioni sindacali hanno effettuato appare palese che l’obiettivo che aveva mosso il governo Renzi a intervenire con il Jobs Act, ossia dare più flessibilità e più libertà alle imprese di licenziare, come leva per eliminare la precarietà e creare maggiore occupazione, non solo non è stato raggiunto ma si è conseguito il risultato opposto, cioè, minore occupazione e aumento delle precarietà.

Riporto a tal proposito quanto risulta dal monitoraggio pluriennale: Precarietà e bassi salari. Rapporto sul lavoro in Italia a dieci anni dal Jobs Act, della Fondazione Di Vittorio, presentato lo scorso 30 aprile a Roma.

I contratti a termine e part time riguardano stabilmente ormai quasi il 30% degli occupati e colpiscono in modo particolare i giovani, le donne e i laureati: la precarietà è diventata un elemento strutturale del lavoro in Italia. L’aumento del numero di occupati si accompagna alla più lenta crescita delle ore lavorate totali, data l’espansione del lavoro part time”. “Il risultato di questa legge – si legge nella ricerca – è stato un circolo vizioso tra lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita. Siamo scivolati indietro rispetto alle maggiori economie europee”.

Il bilancio decennale sugli effetti del Jobs Act dimostra, inequivocabilmente, che l’obiettivo occupazionale non può essere perseguito con normative permissive a tutto vantaggio del datore di lavoro. È una chimera pensare che riformare norme giuslavoristiche possa generare nuova occupazione. Questi obiettivi dipendono fortemente da una buona politica economica in grado di sostenere strutturalmente investimenti e competitività.     E sulla stessa lunghezza d’onda la Prof. M. T. Carinci, docente di diritto del lavoro all’Università statale di Milano, su “Le interviste di giustizia insieme” del 7 maggio scorso sul referendum abrogativo:                                                                                                                                                 

“Il Jobs Act, dunque, non ha raggiunto gli obiettivi che dichiarava di perseguire, né poteva raggiungerli.                                                                                                                                                                                    Al contrario, esso ha determinato una ulteriore segmentazione del mercato del lavoro (fra lavoratori più protetti, i “vecchi assunti” fino al 7 marzo 2015, e quelli meno protetti, i “nuovi assunti”) finendo per promuovere un modello di impiego il cui “cuore” non è la valorizzazione di chi lavora ma, piuttosto, una più spinta “precarizzazione” e soggezione ai poteri (di diritto e di fatto) del datore di lavoro.                                                                                                             

Insomma se davvero vogliamo tornare allo spirito e alla ratio dello Statuto dei lavoratori e del suo proponente Donat Cattin, che ha inteso dare dignità e stabilità futura al lavoratore e solida tutela del posto di lavoro, su cui poter costruire il proprio progetto di vita, in conformità al ruolo prioritario che la Costituzione affida al lavoro, come strumento di promozione sociale e civile, e restituire maggiore espansività dell’occupazione, non lasciamoci sfuggire questa occasione referendaria dell’8 e 9 giugno per cancellare dall’Ordinamento normative in materia di lavoro, che, ispirate da politiche sbagliate che hanno prodotto effetti opposti a quelli che si prefiggevano, condizionano il futuro di moltitudini di lavoratori e delle loro famiglie.