DICIAMO NO AGLI IMBRATTATORI DELLA BUONA POLITICA

Si avvertono, con la formazione di questo governo, gli attriti e le discordanze di due pulsioni politiche, l’una fortemente impregnata di rigorismo farisaico, dedita a smantellare con il pretesto della giustizia e della moralità il valore intrinseco dell’impegno politico (M5S), l’altra mugugnante e pugnace contro lo strapotere della magistratura, specie per le indagini e soprattutto le sentenze avverse al partito-cardine dell’Italia sovranista (Lega). In questa dialettica, per ora benevola e pacifica in virtù di quel balsamo particolare rappresentato dal potere, si fatica a credere che il Paese abbia incominciato sul serio a camminare sulla strada del rinnovamento civile e morale (prima che politico). Una nube sporca di caligine, ovvero di antipatica ipocrisia, avvolge la questione – vecchia e nuova al tempo stesso – della moralità pubblica.
Forse avrebbe più senso che un moto di rinascita partisse dalle coscienze individuali, con l’esempio e la buona volontà, per essere poi di trascinamento alla rinascita della società nel suo insieme. Da troppo tempo, perlomeno dalla fine della Repubblica dei partiti, nel cruciale biennio 1992-1994, il conflitto si è polarizzato attorno a parole d’ordine altisonanti e a pratiche omissive o più precisamente lesive, in più casi, dei doveri di correttezza e moralità nel campo proprio della politica.
Ci sono comportamenti che lasciano dubitare della serietà di tanti protagonisti della nuova stagione repubblicana. Non si ha paura di sfidare l’evidenza dei fatti, allorché viene alla luce, se si fa minimamente attenzione, la discrasia tra parole e gesti concreti. A questo dovrebbe essere più accorta la pubblica opinione: a come, cioè, il rigore nello stile di vita e nella condotta pratica sia eluso abilmente e colpevolmente, a livello personale.
Si dimentica spesso che il diavolo si annida nei dettagli. Ed è appunto qui, nel dire e nel fare di un uomo politico, in quel dettaglio che occupa e determina lo spazio della coerenza, che andrebbe letta la virtù dei singoli. Anche perché, in mancanza di tale premura per l’analisi dei comportamenti individuali, si rischia di generalizzare, facendo di tutt’erba un fascio. Sono molti gli onesti – onesti prima di tutto nel cuore – che vivono non di politica ma per la politica. Perché aggredirne l’immagine, dando anfetamine ed estrogeni, con l’indeterminatezza dei pregiudizi e delle offese, al qualunquismo dell’antipolitica? E perché invece non “smarcherare” i patrocinatori di una politica della convenienza, a uso e consumo delle proprie ambizioni, priva di requisiti e contenuti di moralità?
Distinguere e giudicare, sta in questo la forza di una democrazia finalmente risanata dal morbo del populismo e rafforzata, tuttavia, nelle difese immunitarie contro gli imbrattatori, anche arroganti, della buona politica. Ognuno deve farsi interrogare da una nuova coscienza del bene comune. A qualche mela marcia, prima dunque di qualsiasi inchiesta giudiziaria, occorre rivolgere un invito caloroso a farsi da parte. È il programma minimo, e magari quello giusto davvero, per cambiare in meglio l’Italia.