Dire famiglia oggi?

Lapidario l’incipit dell’ultimo editoriale del Padre gesuita sul si sito di “Connessioni”. In sostanza la famiglia è fuori moda. L’autore tuttavia, oltre a ricostruire una trama ideale per capire il senso profondo di questa peculiare istituzione, passa in rassegna rapidamente le ultime misure adottate dal governo a sostegno della famiglia. E ritiene che sia un “buon segno” quanto prefigurato dalle decisioni di Draghi.

Lapidario l’incipit dell’ultimo editoriale del Padre gesuita sul si sito di “Connessioni”. In sostanza la famiglia è fuori moda. L’autore tuttavia, oltre a ricostruire una trama ideale per capire il senso profondo di questa peculiare istituzione, passa in rassegna rapidamente le ultime misure adottate dal governo a sostegno della famiglia. E ritiene che sia un “buon segno” quanto prefigurato dalle decisioni di Draghi.

 

 

Dire “famiglia” oggi è fuori moda, parlarne sembra quasi démodé eppure la Costituzione italiana dedica alla famiglia e al matrimonio gli articoli 29, 30 e 31, le cui disposizioni sono tra loro connesse. Per i costituenti regolare listituto familiare implicò un «cambio di rotta» culturale rispetto alla visione etica e antropologica su cui si basava l’idea di famiglia nel periodo storico prerepubblicano.

 

Nello Statuto Albertino del 1848 il termine «famiglia» compariva solo per la “famiglia reale”. Lo Stato liberale si limitava a tutelare listituto giuridico della famiglia per disciplinare il patrimonio dagli effetti del matrimonio. La famiglia era pensata come l’«ambiente» in cui la «donna-madre preparava l’avvenire del popolo italiano», insegnando la morale e la religione. Il diritto di famiglia italiano dall’Unità al periodo fascista è stato influenzato dal Codice Civile di Napoleone del 1804, nel quale la famiglia, pensata come «cellula dello Stato», era fondata sul matrimonio civile (un trattato di diritto pubblico) che tracciava la separazione tra lo Stato e la Chiesa e il rapporto tra coniugi si basava sulla disuguaglianza.

 

Con lavvento del regime fascista, la famiglia venne asservita ai fini dello Stato. I genitori avevano il dovere di educare e di istruire la prole sui «princìpi della morale», in conformità al «sentimento nazionale fascista» (art. 147 cc.). Per favorire le nascite il regime introdusse la tassa sui celibi, escluse l’accesso ai pubblici impieghi per i non coniugati, istituì privilegi di carriera ed esenzioni d’imposta per coloro che avevano una famiglia numerosa. Un decreto del 1938 limitò ad un massimo del 10% la presenza delle donne nel pubblico impiego, mentre rimaneva marcata la disuguaglianza tra uomo e donna. Basti ricordare due esempi: l’adulterio della moglie costituiva reato, mentre l’uomo compiva reato solamente nel caso di concubinato; la comunione dei beni era imposta per legge e includeva tutti i beni della dote della moglie di cui il marito era l’unico amministratore.

 

In breve, fino alle soglie della Costituente del settembre 1946, la famiglia aveva il compito di trasmettere i valori fascisti e garantire la figura del pater-familias.

 

La sinistra era interessata a regolare la famiglia per introdurre il principio di uguaglianza tra i coniugi, ma al suo interno esistevano forti punti di divergenza. Per i socialisti la famiglia si limitava ad essere una «costruzione storica», che la Costituzione non avrebbe dovuto regolare. Per i comunisti, invece, regolare la famiglia era una forma di controllo della società e del territorio. Per queste ragioni, sia l’on. Togliatti sia l’on. Jotti non si schierarono a favore del divorzio per almeno tre motivi: era stato vietato in Russia nel 1935 da Stalin; il loro elettorato contadino e parte dei loro deputati erano contrari; temevano una campagna politica della DC a loro svantaggio. Ma c’era di più, in quanto i comunisti giocarono su due fronti: da una parte insieme ai cattolici per la difesa della famiglia, dall’altra contro di loro sulla questione dell’indissolubilità del matrimonio.

 

Per il gruppo democristiano regolare la famiglia nella Costituzione significava, da una parte, assicurare alla persona umana la sua crescita e il suo sviluppo e, dall’altra, garantire alla società il più importante «ente intermedio» che a livello sociale si poneva tra il singolo e lo Stato.

 

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