La sera del 23 agosto 1923 don Giovanni era stanco perché aveva dovuto tutto il giorno occuparsi di una misera famiglia il cui padre era rimasto vittima di un incidente. Si era assunto la responsabilità del mantenimento dei tre orfani.
Andava verso il circolo cattolico accompagnato da uno dei suoi giovani e parlava di un progetto di cooperativa operaia per la produzione di conserve, iniziativa che avrebbe dato lavoro a molti disoccupati. Sbucarono all’improvviso dall’ombra di un vicolo, due uomini: si udì un colpo secco ed il sacerdote stramazzò a terra. Il giovane, anch’egli colpito, si rinvenne subito.
I due erano spariti. Aiutò don Giovanni a trascinarsi verso la canonica, corse a chiamare aiuto. Poco dopo don Minzoni giaceva esanime sul suo povero lettuccio di ferro: una bastonata gli aveva fracassato il cranio. Le onoranze alla salma, ad Argenta ed a Ravenna, furono grandiose, mentre la notizia si diffondeva in un baleno in tutta Italia, e l’opinione pubblica qualificava ed individuava senza difficoltà gli assassini.
Estremamente facile sarebbe stato alla polizia mettere subito le mani sui colpevoli, ma c’era l’On. Balbo a pensare a tutto.
Disse al suo solito amico perchè lo riferisse a chi di dovere: «Il questore lo mando a Girgenti se non fila in gamba: ed il prefetto sa già che ho pronto il suo sostituto». Scrisse anche: – Sarà bene che il Prefetto faccia capire al Procuratore del Re che non si desiderano imbastire processi.
Il tenente dei Carabinieri fu ugualmente consigliato a non essere troppo zelante. Così le indagini furono insabbiate, l’istruttoria archiviata e gli indiziati rimessi in libertà.
Nel frattempo aumentavano in tutta Italia le aggressioni e le violenze. Il 10 giugno del 1924, veniva assassinato anche il socialista On. Matteotti.
«Il Popolo» diretto dal coraggiosissimo Giuseppe Donati, e la «Voce Repubblicana» pubblicarono allora esplicite formulazioni di responsabilità. Amerigo Dumini – autore confesso dell’assassinio di Matteotti – fu accusato anche dell’omicidio di don Minzoni come esecutore materiale; si fece il nome di Italo Balbo come mandante; e si additò apertamente la responsabilità del gen. De Bono capo della Polizia.
Balbo fu allora costretto a querelare il giornale repubbli-cano: ma le prove e le testimonianze addotte dal giornale furono così chiare e schiaccianti, che la Magistratura fu costretta a emettere sentenza di assoluzione e la sera stessa Balbo dovette dare le dimissioni da Generalissimo della Milizia.
Dopo pochi giorni si riaprì il processo per il delitto Minzoni. Ma la Magistratura era ormai addomesticata. Nonostante che la verità balzasse evidente da tutte le prove, gli accusati furono assolti.
Solo 24 anni dopo, nel 20-6-47, la Corte di Assise di Fer-rara, riaperto il processo, riconobbe tutti i fatti e le responsabilità. Purtroppo i protagonisti non erano presenti. Balbo era stato abbattuto dalla contraerea italiana nel cielo della Libia; il Console della Milizia era miseramente finito durante la guerra di li-berazione; uno dei due sicari era morto sotto il treno e l’altro era stato ucciso durante una rissa; il fiduciario fascista della provincia era morto in un incidente d’auto ed il gerarca che scelse a Casumaro i due assassini era rimasto vittima di una imboscata politica pochi mesi dopo la morte di don Giovanni Minzoni.
Restava il contadino che aveva custodito le biciclette dei due sicari, sulla strada, fuori del paese: costui, quando nel 1947 si riaprì la istruttoria ed i carabinieri lo mandarono a chiamare, fuggì nei campi e s’impiccò ad un’albero.
[Tratto dall’opuscolo, con testi vari, intitolato Don Giovanni Minzoni martire della libertà, a cura della Dc – Ufficio Propaganda, 1973(?). Lo stralcio riportato è attribuito a Lorenzo Bedeschi (con presumibile riferimento al suo libro Don Minzoni, il prete ucciso dai fascisti, Bompiani 1973].