Presidenzialismo, premieriato e autonomia differenziata: il mercato delle riforme istituzionali.

Dalle dichiarazioni della presidente del Consiglio e dei ministri si ha la sensazione che sia stato aperto dal governo un ‘suk’ sulle riforme di cui è apprezzabile soltanto l’assenza d’ipocrisia.

Ci risiamo con gli annunci di miracolose riforme istituzionali che dovrebbero rendere il Paese più efficiente e consentire ai cittadini di scegliere ‘i governanti’, come se finora la scelta dei governi repubblicani fosse avvenuta in modo antidemocratico, cioè contro la volontà dei cittadini. Per il governo di destra la soluzione è una “riforma costituzionale in senso presidenziale” (dichiarazioni programmatiche del governo Meloni al Parlamento, 25 ottobre).

 

Per rispolverare il tema ho cercato tra i miei libri quelli sulle riforme istituzionali, che ovviamente non sono pochi perché se ne parla in Italia da almeno 30 anni; così è riemerso l’elenco delle ipotesi di riforma dell’attuale parlamentarismo italiano: sistema presidenziale, sistema semi-presidenziale, sistema semi-presidenziale francese, Sindaco d’Italia, sistema premierato forte, sistema Westminster e tante altre numerose combinazioni di questi sulle quali, nel tempo, tanti si sono esercitati. Elenco che è destinato ad allungarsi: è nuova di zecca la proposta del “governatorato” del ministro Calderoli.

 

Questa volta, a differenza del passato, la proposta di riforma è stata avanzata in un contesto politico diverso perché la destra che governa è il Paese è populista e demagogica non solo nel linguaggio, ma anche nelle scelte politiche. Il suo tratto caratterizzante è tipico di tutte le destre populiste,dall’Europa alle Americhe, l’autoritarismo e l’etnicismo.

 

Sul campo c’è anche la proposta leghista di autonomia differenziata (ovvero più poteri) delle regioni, nata sulla base dei soli due referendum sull’autonomia del 2017 del Veneto (partecipanti al voto 57,2%) e Lombardia (partecipanti 39,3%) e che adesso si vuole imporre attraverso semplici accordi tra il ministro Calderoli e i singoli presidenti delle Regioni senza che il Parlamento possa di fatto interferire più di tanto. Sì, l’altro tratto distintivo della destra è quello di provare fastidio nei confronti del Parlamento che infatti perderebbe la sua centralità con la riforma presidenziale annunciata sia nel caso di elezione diretta del Capo dello Stato, sia nel caso di elezione diretta del Capo del Governo.

 

Dalle dichiarazioni della presidente del Consiglio e dei ministri si ha la sensazione che sia stato aperto dal governo un ‘suk’ sulle riforme di cui è apprezzabile soltanto l’assenza d’ipocrisia. La Lega vuole che entro l’anno si avvii l’autonomia differenziata alle Regioni e per raggiungere tale fine è disponibile a fare di tutto, teme però di essere turlupinata con qualche rinvio. Fratelli d’Italia sa che per ottenere il presidenzialismo ha bisogno del sostegno determinante della Lega, ma dubita della sua lealtà e teme il sabotaggio. Si susseguono così prese di posizioni, punzecchiature e accuse reciproche da parte dei pretoriani di Meloni e di Salvini. Edoardo Rixi (Lega) ha affermato in modo esplicito: “No al premierato”.  Per il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari (FdI) invece, “autonomia differenziata e riforme costituzionali sono due percorsi complessi che cercheremo di portare avanti nel minor tempo possibile”. La tensione massima  è stata raggiunta ieri quando è stato reso pubblico un documento tecnico del servizio bilancio del Senato che stronca la proposta leghista di autonomia differenziata. Apriti cielo: il ministro Calderoli si infuria e chiama il presidente del Senato Ignazio La Russa accusandolo di essere la ‘manina’ del contenuto del documento; il ministro Salvini telefona immediatamente a Georgia Meloni chiedendo  “a che gioco stiamo giocando?”. Dopo qualche ora il documento viene ritirato: il servizio tecnico del Senato dichiara che la pubblicazione è avvenuta per errore e che il documento deve ancora essere verificato!

 

Conciliare queste diverse posizioni prima  delle elezioni europee (primavera prossima), come sperano le forze politiche al governo, sarà un’impresa ardua. Qualche spiraglio forse si aprirà quando, al grido di ‘liberalizziamo le elezioni’, sarà molto probabilmente presentata la proposta per consentire ai presidenti delle Regioni il terzo o quarto mandato, dimenticando così che il limite non era posto per un dispetto verso qualcuno, ma una modalità democratica che aveva l’obiettivo di contenere il maggiore potere assegnato ai presidenti dall’elezione diretta. Modalità di elezione che tra l’altro ha determinato un’eccessiva personalizzazione della politica e il dilagare, soprattutto durante la pandemia, di un insensato ‘sovranismo regionale’ che ha obbligato l’ex presidente Draghi ad affidare al generale Figliuolo il compito di coordinamento delle misure di contrasto al Covid.

 

Trattare temi così delicati con questa leggerezza e con questa modalità è da irresponsabili. Pensare di mettere mano a una modifica rilevante della Costituzione, frutto di un grande approfondito lavoro politico e culturale dei nostri padri costituenti, con un baratto tra i partiti della destra e una semplice consultazione delle opposizioni a Palazzo Chigi, finalizzato esclusivamente a dimostrare che regista della riforma è una persona sola al comando, ossia il capo del governo, è di una gravità istituzionale che non ha precedenti.  

Trascurare o ignorare che le proposte di riforma della destra avrebbero un effetto anche sul ruolo del Presidente della Repubblica è altrettanto grave. Ora il Capo dello  Stato ha un’importante e indispensabile ruolo di garanzia  costituzionale che gli consente di intervenire a tutela della Costituzione e dell’unità del paese; ruolo che la destra di fatto non condivide, ritenendola un’invasione di campo. La dimostrazione è nei mugugni delle seconde e terze file della destra (qualche volta anche tra le prime) che dopo ogni doveroso intervento del Capo dello Stato riescono a tacere per qualche giorno e poi si lanciano in spericolate acrobazie dialettiche per dissentire (gli esempi sono tanti). Penso, al contrario, che questi interventi siano, come sosteneva con grande efficacia Mino Martinazzoli nel 1982 nei  confronti del Presidente Pertini “una corretta e utile pedagogia verso i partiti. Non una confisca, non una mortificazione, ma una sollecitazione alle virtù dei partiti. Un’autorevolezza, piuttosto che una dilatazione delle prerogative presidenziali”. Se per ipotesi questa riconosciuta e consolidata autorevolezza del Capo dello Stato fosse intaccata si aprirebbe un’irriducibile conflittualità istituzionale.

 

Un osservatore attento come Marco Follini, ha osservato su questo quotidiano di essere stato colpito dall’insistenza con cui “ il governo reclama poteri maggiori, pur disponendo di un’ampia maggioranza parlamentare, di un consenso popolare ancora assai forte e di altri quattro anni e mezzo di tempo per realizzare le sue buone intenzioni”. Penso che il presidente del Consiglio abbia voluto anticipare una sorta di giustificazione per la difficoltà ad attuare un programma elettorale che probabilmente non tiene conto di problemi economici e finanziari del nostro Paese che erano più che noti. Così, anziché fare quest’ammissione, ha deciso di incolpare le regole costituzionali attuali che le impediscono di assumere decisioni veloci.

 

Giustificazione infondata: con queste regole il nostro Paese è cresciuto socialmente ed economicamente fino a diventare una potenza economica mondiale. In sostanza nel governo della cosa pubblica conta la qualità della proposta politica e la capacità di compiere scelte coraggiose anziché la demagogia degli annunci.  Chi ha responsabilità politiche dovrebbe sapere che ogni promessa elettorale suona falsa se non è accompagnata da gesti risoluti, e dunque non indolori, capaci di ridurre l’inflazione, il sovraccarico della spesa pubblica, l’eccesso di pretese di tutti verso lo Stato. E’ nella riduzione dei troppi privilegi, infatti, che si ridà spazio alle attese dei più deboli, spesso silenti, altrimenti si diffonderà sempre più lo scetticismo, non del tutto immotivato, sulla sincerità delle intenzioni e delle parole elargite dalla politica, che è la causa della crescente disaffezione alla partecipazione elettorale.