Questa volta Donald Trump ha vinto anche nel voto popolare, a differenza di quando – otto anni fa! – sconfisse Hillary Clinton. Ha aumentato i consensi in ogni Stato, in ogni gruppo etnico, in ogni segmento sociale della popolazione. Intendiamoci, nel voto popolare non ha stravinto – gli Stati Uniti rimangono spaccati quasi a metà – ma ha senz’altro vinto pienamente. Aggiudicandosi la maggioranza, ancorché di misura, in tutti gli otto Stati nei quali i sondaggi prevedevano con certezza un testa a testa fra i due candidati (ed è stato così) ma non certo la vittoria finale di Trump in ognuno di essi.
E’ un risultato – la vittoria dell’ex Presidente ora legittimato a tornare a Washington per un secondo mandato nonostante i capi di imputazione che ancora pendono sulla sua persona – che deve insegnare molto ai democratici sconfitti ma che soprattutto ci dice molto circa il “momentum” vissuto dagli Stati Uniti ma più in generale dal mondo occidentale (se ne parlerà prossimamente, ma non v’è dubbio che questo voto americano avrà riflessi non secondari in Europa).
Gli elementi di fondo che hanno favorito la vittoria di Trumphanno a che fare con la paura, un sentimento vissuto dai ceti popolari e dalla classe media falcidiati dall’aumento dell’inflazione, dalla perdita del potere di acquisto, dalla complessiva sensazione di caduta del tenore di vita e dalle conseguenti preoccupazioni sul proprio futuro. I positivi dati macroeconomici dell’economia statunitense post-Covid (prodotto interno lordo cresciuto, quasi piena occupazione, aumento dei salari) non sono stati sufficienti per tranquillizzare una parte ampia dell’elettorato medio americano, preoccupato dall’inflazione ancora alta che si mangia ogni incremento salariale e dalla conseguente caduta del potere d’acquisto. Il rilancio macroeconomico conseguito dalla presidenza Biden non è stato affiancato da quello micro, essendo rimasta alta l’inflazione che – come è noto – erode innanzitutto i redditi medi e quelli più bassi. Ciò ha prodotto incertezza e diffusa sensazione di precarietà presso il ceto medio e non solo presso i ceti più popolari sui quali, dunque, i pur ragguardevoli risultati macro conseguiti dal governo federale non hanno inciso più di tanto, erosi dall’inflazione e da un vago senso di malessere circa le prospettive future.
Il sostegno, tradizionale, dello star system al Partito Democratico ha questa volta più di altre nuociuto alla candidata dem, che pure aveva alcuni punti di forza innovativi (donna di colore, con una carriera importante nella magistratura e non nella politica) ai quali però ne associava alcuni altri irritanti per gli americani tradizionalisti che non vivono sulle due coste oceaniche della Nazione (il lassismo in genere ispirato all’americano medio non californiano da tutto quello che proviene da quello Stato, ora rafforzato dall’onnipresente ideologia woke con tutti i suoi derivati dalla quale Kamala Harris non mostrava quella pur minima distanza che traspariva a volte dai “non detti” del cattolico Biden; il sostegno dell’élite progressista milionaria in dollari che guarda dall’alto in basso con vero disprezzo classista i ceti popolari più tradizionalisti; il solito – e spesso in verità ingiustificato – senso di lassismo emanato della sinistra liberal nei confronti della criminalità di base, spicciola eppur devastante per le persone oneste appartenenti ai ceti popolari).
E così il mix prodotto nell’America profonda da rabbia nei confronti di uno star system che non la rappresenta sociologicamente (e che ciò nondimeno si può applaudire ma solo nei momenti di svago, il tempo di un concerto, il tempo di una trasmissione tv) e che pretende di farle la morale dall’alto dei suoi valori umanistici e dei suoi dollari e, ancora, dalla paura circa un futuro insidiato da nuove tecnologie, fine dell’era industriale, multiculturalismo, innovazioni tecnologiche e quant’altro ha generato una reazione uguale e contraria che ha condotto molte persone non necessariamente ideologizzate o nemiche dei valori democratici e inclusivi della migliore tradizione americana a sostenere, se non proprio a sposare, le tesi in qualche modo eversive della migliore tradizione dell’American way of life: l’identitarismo contro un “altro” considerato un nemico da insultare; una qual certa noncuranza verso l’etica pubblica che ha fatto dimenticare, ad esempio, i gravissimi fatti del 6 gennaio 2021 (mai esplicitamente condannati da Trump); lo scadimento del linguaggio, sempre più volgare e offensivo nei confronti del concittadino espressione di un’altra idea, di una differente concezione della vita e della società.
La vittoria di Trump nasce da queste, e altre, divisioni dell’America più profonda rispetto a quella luccicante dello star system che noi non americani vediamo da fuori. Certo, se il Presidente Biden avesse con umiltà accettato prima i segnali provenienti a lui medesimo dall’inesorabile trascorrere del tempo avrebbe consentito al suo partito un confronto interno acceso ma profondo, e forse sarebbe da esso emersa una figura maggiormente in grado di rappresentare un’alternativa non solo generazionale a Donald Trump. Un errore questo che, insieme al ritiro dall’Afghanistan, macchierà l’eredità politica di Joe Biden, un Presidente che invece ha fatto bene (e oggi naturalmente non gli viene riconosciuto) in molti settori, incluso quello economico.
Invece, in una campagna elettorale divenuta brevissima dopo il ritiro dalla corsa– a quel punto inevitabile – del Presidente in carica, Kamala Harris ha fatto tutto quello che ha potuto, e pure di più, ma non ha certo potuto cancellare le sue debolezze e quelle del suo partito, diviso e segmentato come non mai e però costretto a improvvisare una unità di facciata intorno alla vicepresidente uscente. E nulla ha potuto a fronte del sentiment generato dalla paura del futuro così diffusa e prevalente in quella grande nazione in questo periodo storico presso larga parte della popolazione.
L’America profonda ha chiesto col suo voto a Trump quello che una società spaventata dalle novità emergenti in genere domanda alla politica: protezione.
Protezione dal rischio di crisi economica, protezione dalle migrazioni esterne, protezione dalla prevalenza delle minoranze a scapito della maggioranza, protezione degli integrati nel sistema, protezione del proprio territorio e dei propri interessi prima che di quelli altrui. Se a questo compito, poi, si dedicano miliardari come Musk e come lo stesso Trump poco importa. Del resto, cinicamente, per i più, in un tempo nel quale i grandi ideali sono confinati sullo sfondo, la leadership politica deve limitarsi a seguire gli umori della società individualista. Rovesciando uno dei cardini sui quali si fonda(va) il primato della politica. Stando così le cose, per ora e speriamo non per sempre, la vittoria di Trump era scritta. Inevitabile.