È diventato legge il 20 maggio del 1970. Un’altra epoca storica e, si potrebbe aggiungere, un’altra era geologica. Si chiamava lo Statuto dei Lavoratori. Il Ministro del Lavoro che lo portò al varo definitivo si chiamava Carlo Donat-Cattin. In queste poche note di cronaca si racchiude una delle leggi più importanti e significative della storia democratica del nostro paese. Certo, una legge storica a cui hanno contribuito in tanti, a cominciare dal Ministro del Lavoro che precedette Donat-Cattin, il socialista Giacomo Brodolini che morì prematuramente e a cui va il merito di aver iniziato l’iter legislativo dello Statuto. Come non si può dimenticare l’apporto fondamentale del professor Gino Giugni, già collaboratore di Brodolini e poi del leader della sinistra sociale della Dc di Forze Nuove al Ministero e “padre giuridico” dello Statuto dei Lavoratori. 

Comunque sia, una legge importante e cruciale per il mondo del lavoro, per il riconoscimento dei diritti dei lavoratori e per la stessa organizzazione del lavoro, della produzione e del processo del lavoro. Al punto che Donat-Cattin racchiuse il significato di quella legge in una celebre intervista di alcuni anni dopo con una definizione diventata celebre: “La Costituzione entra nelle fabbriche”. Parole di grande impatto e straordinariamente efficaci che spiegavano la portata quasi rivoluzionaria di quel provvedimento. Legge che passò con la dura opposizione della destra politica ed economica del tempo, anche con non pochi mugugni nell’area conservatrice e di destra della Dc, il partito di Donat-Cattin, e con la singolare e curiosa astensione dei comunisti. 

Si trattò di una battaglia lunga e complessa iniziata con l’autunno caldo e il protagonismo sociale, politico e democratico del sindacalismo italiano e proseguita con un duro conflitto sociale e senza precedenti nella storia italiana del secondo dopoguerra. Si trattò di una battaglia per affermare un nuovo ruolo dei lavoratori nella società: protagonisti, e non più sudditi; cittadini che partecipano alla costruzione della Repubblica, che la Costituzione fonda per l’appunto sul lavoro. Certo, Donat-Cattin riconobbe anche che, come legge, lo Statuto dei Lavoratori aveva dei limiti e che era stato pensato in funzione delle esperienze e delle richieste specifiche del tempo. Infatti auspicò fin da subito dei miglioramenti. In generale, allo Statuto dei Lavoratori si riconosceva la volontà di andare incontro alle esigenze dei lavoratori nell’interesse della ricerca della pace sociale. 

Ma c’è un elemento politico e culturale decisivo e cruciale che fa da sfondo al varo dello Statuto dei Lavoratori e che è legato strettamente al profilo politico del “Ministro dei lavoratori”, cioè Carlo Donat-Cattin. In effetti, la preoccupazione costante di Donat-Cattin di porre la “questione sociale” al centro di ogni indirizzo politico non si risolveva solo nello sforzo di condizionare le scelte di politica economica e salariale ponendosi dal punto dei vista dei ceti subalterni: scelte che ebbero conseguenze incalcolabili nel determinare lo sviluppo complessivo della società italiana per le enormi potenzialità di lavoro, di intelligenza, di imprenditorialità diffusa che le classi popolari italiane seppero sprigionare in un paese come l’Italia, privo di materie prime e di capitali e ricche solo di braccia e di intelligenza pratica. La sua ambizione era più grande: Donat-Cattin, cioè, voleva che nell’architettura amministrativa dello Stato democratico quei ceti e quelle istanze non avessero più un ruolo residuale nè meramente aggiuntivo. Quando arrivò alla guida del Ministero del Lavoro non tardò, infatti, a rendersi conto che – sono parole sue – “nell’organizzazione attuale del Governo non esiste un vero e proprio centro di politica sociale: si è costituito nel tempo un Ministero del Lavoro perchè con i sindacati bisognava trattare; vi si è aggiunta la competenza della previdenza sociale perchè le lotte dei lavoratori avevano ottenuto alcune norme per la sicurezza della vita e così via. Ma è tutto strumentale da parte delle classi dirigenti verso il lavoro subordinato”. 

Era, infatti, sua ferma convinzione che il dato politico nuovo “doveva consistere nel dare alla politica sociale complessiva un ruolo non più subalterno, ma primario per la vita dello Stato, anche nella sua espressione politico/amministrativa”. Insomma, per Donat-Cattin l’istanza sociale doveva “farsi Stato”. E cioè, trovare piena ed irreversibile cittadinanza ad ogni livello dell’organizzazione amministrativa e della gestione della cosa pubblica. E il suo radicamento nel sociale si saldava così con le esigenze più mature e moderne dello Stato di diritto: saldatura che riscontriamo non solo nella battaglia per lo Statuto dei Lavoratori ma anche nella strenua difesa della legge elettorale proporzionale che, per Donat-Cattin come già per Luigi Sturzo, rappresentava l’unico strumento di emancipazione politica per i ceti popolari, cioè per consentire ad essi di avere, ad ogni livello e senza mediazioni gerarchiche, i loro diretti rappresentanti. 

Questa è la cornice politica, culturale e sociale che ha fatto maturare, e votare in Parlamento, lo Statuto dei Lavoratori. Una legge che conserva, tutt’oggi, una bruciante attualità e modernità. Perchè il riconoscimento e la tutela dei diritti dei lavoratori non sono mode che passano e non hanno tempi determinati. Sono e restano principi democratici che non possono essere sacrificati sull’altare di qualsiasi falsa e maldestra modernità. Per questo va ricordato e riletto anche se va, come ovvio, attualizzato e aggiornato.