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venerdì, 6 Giugno, 2025
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Dopo la rottura con Musk, Trump virtualmente non è più maglia rosa

Con il clamoroso addio del padrone della Tesla, va in crisi il “sinolo trumpiano” che aveva unificato la destra mettendo insieme il radical-populismo (forma) e l’ultraliberismo (materia). Musk come Ross Perot?

L’addio è stato fragoroso, forse definitivo. Elon Musk ha rotto con Donald Trump non solo sul piano personale – con parole taglienti e allusioni al “caso Epstein” che suonano come esplicita minaccia – ma soprattutto sul piano politico. E qui si apre un fronte nuovo e, per Trump, assai insidioso.

Per comprendere la portata dello strappo, vale la pena fare un passo indietro. Il primo imprenditore miliardario ad aver cercato di trasformare la propria visione economica in piattaforma politica non è stato Trump, ma Ross Perot. Texano, indipendente, populista con toni da contabile rigoroso, Perot costruì negli anni ’90 un’alternativa al duopolio repubblicano-democratico, fondando il Reform Party: una crociata contro la corruzione di Washington, il deficit pubblico e – guarda un po’ – il Nafta.

Trump, a suo tempo, flirtò con quel partito. Ma poi capì che il vero potere non stava nel creare un contenitore nuovo, bensì nell’occupare dall’interno il Partito Repubblicano, mutandolo radicalmente. Dove Perot si era fermato sulla soglia, Trump è entrato nella casa conservatrice con l’arroganza del vincitore, cannibalizzando il vecchio establishment e spostando l’asse a destra, in direzione populista, ma senza perdere nel 2024 l’aggancio con l’elettorato tradizionale. Il suo capolavoro, realizzato laddove anche i Tea Party avevano fallito, è consistito nell’unificare tre pulsioni: meno tasse, meno Stato, più nazione e più libertà dai vincoli internazionali.

In questo schema, Elon Musk è stato in campagna elettorale l’alleato principe: anti-regolamentazione, techno-libertario, caustico verso l’establishment, contrario al “politicamente corretto”. Eppure oggi tutto si è infranto. La rottura segna l’inizio della scomposizione del “sinolo trumpiano”, per alludere all’unità di forma e materia della filosofia greca, proprio in quanto l’amalgama tra populismo (forma) e ultraliberismo (materia) tende nuovamente a scomporsi.

Con il sondaggio lanciato ieri su X – “Should I start a new political party?” – Musk ha lasciato intendere che si va ben oltre il litigio tra due ego. La risposta, finanche scontata, dei follower è stata plebiscitaria. E in un altro post, ancora più esplicito, Musk ha scritto: “Donald Trump non è una persona perbene. Era amico di Epstein. La verità verrà fuori”. Più che di allusione, si tratta di minaccia bell’e buona.

La frattura potrebbe generare un “muskismo” politico autonomo come fu il Reform Party, incentrato su innovazione, mercato libero, sfide tecnologiche e disintermediazione populista. Un partito degli startupper, dei libertari, dei repubblicani delusi da Trump.

In questa gara a tappe permanente, espressione tipica delle dialettica democratica americana, Trump si ritrova all’improvviso a fare i conti con la crisi di un primato finora travolgente e incontrollabile. Volendo rimanere nella metafora, virtualmente non è più la maglia rosa del Giro d’America. Certo, tutto può accadere, anche una riconciliazione, sebbene stavolta appaia assai improbabile. Il nuovo Perot ha le fattezze di Musk e alla stregua di Perot, alleato oggettivo di Clinton nel 2002, anche Musk potrebbe fare male mandando a gambe per aria il modello dell’America first.